Francesca continua il suo racconto:
“…Con questo sotterfugio, “travestita” da uomo, fui ammessa all’Accademia Militare, al posto di mio fratello. Avevo già iniziato le lezioni e le esercitazioni, quando mio padre, venuto a sapere di quanto era successo, piombò a Neustadt per riportarmi a casa. Rimase sbigottito nel vedermi in uniforme e le sue parole per convincermi furono come “onda che si infrange sullo scoglio”. Fui brava a ribattere con ragionevole fermezza e feci leva anche sul concetto, a lui caro, di onore familiare per avere un figlio in Accademia. Alla fine, vinto come tanti genitori di fronte a figli adolescenti che sanno imporsi, cedette facendomi promettere che non avrei mai nuociuto al decoro della famiglia. Promisi e sempre tenni fede alla mia parola.
In cerca di altre notizie (utili forse a giustificarsi con la mamma) andò anche dai miei insegnanti di Accademia che parlarono ottimamente di “Francesco” e dei suoi risultati. Probabilmente, usando come lingua il latino, ci furono equivoci (fatti restare tali da mio padre?) e anche il dott. Haller e le sue figliole non sembravano avere dubbi sul mio genere. Così restai in Accademia dove studiavo e mi applicavo nelle esercitazioni pratiche. Quante volte ripensai a quando tiravo di scherma col righello contro le tende del collegio delle suore. Ero contenta e compiaciuta di quanto stavo facendo.
Al termine del corso dovetti sostenere un esame e mi classificai tra i migliori. Il dott. Haller, dubitando, o ormai sapendo, non mi sconfessò mai, forse temeva anche conseguenze per il certificato medico di ammissione che aveva redatto. Venni nominata Alfiere (oggi diremmo Sottotenente). I tempi richiedevano nuovi ufficiali e fui mandata al Reggimento sull’Alto Reno. C’era anche parecchia vita di società e in essa incontrai più difficoltà che non nelle attività militari. Una fanciulla di buona famiglia si innamorò di me e, forse, mi burlai un po’ del suo cuore ingenuo.
Ci trasferimmo in Polonia, a Lublino, e qui incontrai altre donne, mogli di Ufficiali, che cominciarono a fare chiacchiere sul mio viso imberbe e sulla mia “riservatezza”. Una sera un ufficiale mi riferì che le dame dicevano che fossi una “signorina”. Prontamente gli risposi di mandarmi in camera sua moglie, perchè potesse verificare di persona. Per salvaguardare il mio segreto, ero riuscita anche a comportarmi come un maschio strafottente e volgare. Mi sfidò a duello al primo sangue, ma io ebbi la meglio. Avevo però fiutato il pericolo, così la sera successiva corteggiai le signore facendo anche delle avances. Per fortuna non abboccarono. In caso contrario avrei trovato delle complici o delle nemiche? In un ambiente solo maschile non avevo mai trovato ostacoli e i colleghi avevano sempre rispettato la mia privacy. L’intuito femminile, invece, aveva messo a rischio il mio segreto.
Durante un trasferimento mi ammalai ed ebbi bisogno di assistenza. Il medico, fortunatamente, mi fece una visita molto superficiale; l’attendente che doveva prendersi cura di me era un “panduro”, cioè un soldato piuttosto sempliciotto, come vengono ancora oggi chiamati le “teste di pietra” sopra i portoni di Trieste. Mi sono chiesta tante volte se non avesse davvero mai dubitato o se, invece, avesse provato un immenso rispetto e devozione per il “suo” Ufficiale.
Appena guarita, chiesi di passare sul campo e sulle alture di Genova seppi dimostrare il mio valore guidando i miei uomini nella difesa di altri commilitoni, durante una ritirata. Il 1° marzo 1800 fui decorata e promossa Tenente.
Una “donna” fece terminare la mia avventura. Mi trovavo di passaggio a Livorno, quando mi raggiunse mia madre, un osso molto più duro di papà che, per mia sfortuna, non era potuto venire. Fu molto chiara: a suo tempo i miei genitori avevano “compiaciuto” i miei desideri e pertanto avevano “acquisito un diritto: quello di farmi tornare a casa”. Vide anche le ecchimosi sul mio seno causate dalle bende con le quali lo fasciavo per nasconderlo. Non ci fu scampo. Il mio pensiero va a papà che si era trovato tra una figlia Tenente austriaco, un altro figlio, per di più gravemente ferito, Ufficiale dell’esercito napoleonico e mia madre, una vera generalessa, alla quale, forse, assomigliavo per la determinazione.
Mio padre dovette cedere e, forse, fu anche liberatorio per lui parlare con un altissimo esponente dell’Armata austriaca e raccontargli quanto era successo, con la preghiera di congedarmi con l’onore che mi ero comunque meritato. Così, mentre mi trovavo nel mio battaglione, mi arrivò l’ordine di tornare presso la mia famiglia. Ancora una volta la grande storia si intrecciava con la mia. La mia “sconfitta” avvenne quasi contemporaneamente a quella di Marengo, quando gli Austriaci furono battuti dai Francesi.
Fui congedata con onore e con il beneficio di una pensione. I miei superiori furono molto sorpresi da tutta la mia storia, ma ebbero per me solo parole di elogio e di rispetto. Il Comandante del Reggimento mi scrisse una lettera che ancora conservo e rileggo con commozione: “Illustrissima Damigella, Eroina ed impareggiabile amica, spero che mi permetterà che la ammiri sotto questa seconda qualità … come io la veneravo quando ancora si ignorava il di lei sesso. … Per lungo tempo, ad onta della sua delicata costituzione [ha dovuto] sopportare tante gravi privazioni e fatiche … senza l’assistenza di chi potersi confidare … Ella si distinse senza esempio nel suo sesso, onorando in pari tempo il nostro. … Non sono tanto indiscreto di sapere i motivi e le circostanze che la indussero, mia cavalleresca e graziosa amica, ad esporsi a così cimentoso tramutamento. … Viva felice. … Io non cesserò di ammirarla, ed ella non si dimentichi di un amico che la venerò sempre, ed ora anche più qual donna.” In queste parole c’erano il mio passato fatto di colpi di testa, fatiche e tanta solitudine, ma anche l’augurio per un futuro felice. Se ero stata una grande donna, avevo incontrato anche grandi uomini.
La mia avventura era durata ben sei anni. Tornata a casa spesso indossavo ancora abiti maschili per cavalcare con mio fratello e mio cugino, entrambi ufficiali del Primo Reggimento “Cacciatori a Cavallo” dell’esercito napoleonico. Conobbi un bel Tenente, Celestino Spini, ci innamorammo e il 1° gennaio 1804 ci sposammo nella chiesa di San Maurizio.
Fu un matrimonio molto felice tra due Luogotenenti “nemici”, ma molto innamorati. Nacquero diversi figli; dopo qualche anno mio marito fu richiamato in guerra. Lasciai Milano e partii con tutta la famiglia per Talamona, in Valtellina, dove Celestino aveva casa e possedimenti.
Napoleone alla fine venne sconfitto e mio marito tornò a casa dopo aver dato prova di valore e onore. Non sopravvisse molto al suo Imperatore ed io, incapace di piangere, caddi in una profonda depressione. Quante volte ho ripensato alla mia vita chiedendomi che figlia e che madre fossi stata. Quando due dei miei figli manifestarono l’intenzione di prendere i voti, io mi opposi fino a quando non avessero compito i ventiquattro anni. Sono stata una figlia adolescente ribelle ma una madre autoritaria. I miei figli scelsero poi, comunque, la loro strada: Vincenzo divenne sacerdote e io abitai con lui fino alla morte, una figlia divenne suora di carità, un altro magistrato ed infine Isabella morì durante le Cinque Giornate contro gli Austriaci, per i quali avevo combattuto io. Quando la mia Accademia compì cento anni, mi invitò a partecipare alla cerimonia e mi inserì, nonostante fossi una donna, nell’album commemorativo come Ufficiale.
Questa è la mia storia, di una donna milanese, forse un po’ dimenticata, diventata, con un sotterfugio, la prima donna Ufficiale di un esercito.
Grazie per avermi ascoltata”.











