Una straordinaria vetrina nel Quadrilatero della Moda: a San Donnino alla Mazza si vendono cravatte

Quante volte, come ipnotizzati abbagliati dalle vetrine del Quadrilatero, siamo passati davanti allo stretto vicolo che collega via Montenapoleone con via Bigli, senza farvi attenzione.

Forse siamo anche entrati nello stretto passaggio per vedere le cravatte esposte in bacheche di vetro che ricordano quelle dei gioielli.

Un antico muro di mattoni, venuto dal passato, si affaccia su questo vicolo. Sono i resti di San Donnino alla Mazza (o della Mazza), una chiesa medievale, restaurata più volte nel tempo.

Perchè un nome così insolito per una chiesa cristiana? Probabilmente fu costruita nelle vicinanze di una statua o di di un tempio pagano dedicato ad Ercole, che era rappresentato con una mazza o clava, con la quale aveva abbattuto il leone di Nemea. Un po’ di fusion tra religioni ed ecco il nome di questa antica chiesa.

Donnino era un alto ufficiale (forse il “maggiordomo personale”) dell’imperatore Massimiano, che aveva fatto di Milano, dove risiedeva, una delle capitali dell’impero. L’imperatore aveva fatto ampliare le mura di Milano, che includevano anche parte dell’odierno Quadrilatero della Moda.

Resti, purtroppo non visitabili, sono stati rinvenuti anche in via Montenapoleone e in via Manzoni e costituiscono quasi… le fondamenta delle vetrine che ci fermiamo ad ammirare.

Donnino divenne cristiano e l’imperatore, nel 299, lo fece decapitare poco lontano dal fiume Stirone, nei pressi di Fidenza, della quale è il Santo Patrono.

Duomo di Fidenza dedicato a San Donnino

La leggenda racconta che Donnino, raffigurato con indosso l’armatura romana, attraversò il fiume con la testa sotto il braccio per raggiungere l’altra riva, dove gli angeli lo accolsero. Non vi ricorda un po’ una scena di “Gost”?

San Donnino fu molto venerato a Milano e gli venne dedicata una chiesa a metà del 1100, forse utilizzando blocchi di pietra delle stesse mura imperiali. Restaurata poi in epoca barocca, venne infine demolita alla fine del Settecento, tranne la parete laterale.

Questo muro con piccole finestre e  un bel portoncino in granito (i muri a Milano sono sempre “aperti” e accoglienti!), ci ricorda ancora una volta come sia milanese la convivenza tra antico e contemporaneo.

Anche la contrada intitolata un tempo a San Donnino ha cambiato nome ed ora è via Bigli. Se facciamo quattropassi in questa via, diamo un’occhiata al numero 21, dove abitarono la Contessa Clara Maffei, regina dei salotti culturali e patriottici e, più tardi, un giovanissimo Albert Einstein.

Lo scienziato ricorda che qui visse uno dei periodi più felici della sua vita e che conobbe a Milano “gente tra la più civile che abbia mai incontrato”. Parola di Scienziato!

A presto…

Una splendida sorpresa: la chiesa di San Michele sul Dosso con la Vergine delle Rocce

Storia, arte, cultura e fede, tutte autenticamente milanesi, sono custodite nella chiesa di San Michele sul Dosso, che ora fa parte dell’Istituto delle Suore Orsoline di San Carlo, in via Lanzone, vicino alla Basilica di Sant’Ambrogio.

Questo Istituto è uno scrigno dove la Storia fa capolino quasi con elegante nonchalance. Uno scampolo di antiche mura protegge colorati giochi per bambini della scuola materna.

Portici secolari dal Quattrocento in poi (c’è anche la mano del Bramante!) sono la quinta di un cortile dove, durante l’anno scolastico, si sentono giovani voci dall’infanzia all’adolescenza, si tengono eventi dedicati alla mente e allo spirito, si vive quotidianamente la fede.

In una piccola sala d’attesa ci accoglie una pregevole scultura rinascimentale di Madonna con Bambino, forse dei Maestri Campionesi, ritrovata lungo il Naviglio che scorreva in via De Amicis.

Altri preziosi dipinti, che uniscono arte e fede, sono esposti alle pareti delle diverse sale.

Infine sotto il portico, ecco l’ingresso della piccola chiesa di San Michele sul Dosso, così chiamata perchè costruita vicino al terrapieno delle mura comunali.

La chiesa, all’esterno, ha un aspetto semplice, con un finestrone a mezzaluna sopra il portone del Cinquecento e un piccolo campanile che appena si vede. Un tempo la chiesa doveva essere molto importante; antichi “storici” come Galvano Fiamma e Giovanni Pietro Puricelli la dicono fondata da Sant’Ambrogio stesso e sede dell’incoronazione di alcuni re medievali.

Accanto alla chiesa, una targa ci racconta che in questo isolato visse per qualche anno Francesco Petrarca, ospite dei Visconti, che avrebbe desiderato riposare per sempre nella Basilica di Sant’Ambrogio. Un altro like d’autore per la nostra città!

L’interno della piccola chiesa medievale venne rifatto nel Cinquecento secondo lo stile armonioso del Bramante; fu poi ampliato con l’aggiunta di una grande sala per il coro alla quale si deve l’attuale pianta a T, con la vecchia chiesa diventata il transetto di quella nuova. Un grande dipinto sopra il coro raffigura la Beata Vergine. Posto di fronte all’ingresso dal portico, invita a entrare come fossimo attesi ed accolti.

Sul bellissimo coro ligneo sono raffigurate immagini sacre… ma sono presenti anche i segni delle fucilate austriache sparate durante le Cinque Giornate contro il convento, che aveva appoggiato l’insurrezione fornendo materiale per le barricate. Un monito lasciato volutamente per ricordare la lotta per la Libertà da parte di tutti i milanesi.

Il semplice altare è come protetto da un affresco e di fronte al vecchio ingresso, sempre chiuso, una grande balconata a più livelli lascia immaginare le tante preghiere recitate in questo luogo.

Su una parete uno splendido dipinto del Quattrocento rappresenta la chiesa di San Michele affidata alla protezione della Vergine col Bambino e dei Santi Michele e Benedetto. In primo piano sono raffigurati alcuni benefattori, tra cui una donna con un antico rosario.

Infine la sorpresa più grande: la “Vergine delle Rocce”!!! Questo dipinto su tela di lino è custodito dalle Suore Orsoline dopo lunghi e complessi passaggi di proprietà, attenti studi e accurati restauri.

Viene attribuito a Francesco Melzi, il discepolo che accompagnò Leonardo in Francia, diventandone poi il principale erede.

Francesco Melzi

opera del Melzi

Durante il soggiorno ad Amboise si pensa che il Melzi abbia lavorato su alcune opere iniziate dal Maestro, colpito da una parziale paralisi. Dopo la morte di Leonardo (2 maggio 1519), il Melzi tornò a Milano portando con sè importanti carte e disegni del Maestro.

Leonardo amò molto la nostra città e vorremmo pensare che questa “Vergine”, così simile a quella dipinta a Milano ed esposta ora al Louvre, sia tornata a casa.

Per ora viviamo l’incanto e la suggestione che ci trasmette quest’opera, senza raccontare altro. Ne parleremo ancora, perchè abbiamo scoperto che la Vergine delle Rocce ci aspetta in una zona periferica di Milano

Buona Pasqua a tutti, con l’augurio di tante belle “sorprese” dalla vita!

 

A presto…

 

Uno sguardo verso l’alto: le statue del Duomo

Uno strano popolo di marmo vive tra le guglie del Duomo, statue che nascono, trovano un posto dove vivere, si ammalano, vanno in pensione e, talora, rimesse a nuovo, vengono esposte al Museo del Duomo.

Arrivano poi nuovi nati, alcuni cloni di statue precedenti; si rifanno parti deteriorate in una sorta di lifting ad opera di scultori-artisti, momenti dell’infinita Fabbrica del Duomo.

Come parlare delle circa 3400 statue (cioè una al giorno per quasi dieci anni!) che vivono sul/nel/col Duomo?

Ci sembra di ricordare che sia stato il nostro Arcivescovo Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI, a dire che le guglie e le statue sono un “candelabro mistico dalle visioni di leggenda, dalle centomila braccia rivolte al cielo con milioni di voci confuse in un osanna solo” (siamo andati un po’ a memoria…).

Sulla guglia più alta la Madonnina, unica dorata tra tante statue di marmo, è la candela più luminosa che Milano ha acceso per chiedere protezione.

Le statue che ornano il Duomo sono così tante che quasi è impossibile vederle una per una, creature di marmo diverse che “al lume della luna… discutono… e vengono con noi sulla piazza e ci bisbigliano nell’orecchio delle vecchie storie, bizzarre e sante, storie tutte segrete…” (Heinrich Heine).

Non solo il romantico poeta tedesco, ma anche il più duro Ernst Hemingway, le ha sentite: “c’era nebbia nella piazza e quando vi arrivammo vicino, la facciata della Cattedrale ci parve enorme, con tutte le sue statue che parlavano…”.

Che cosa si diranno queste statue? Quali storie, confidenze si faranno l’Homo Selvadego, tutto coperto di peli e con la clava, ed Eva nuda e languida?

Perchè Primo Carnera e Erminio Spalla combattono eternamente un match  di boxe mai avvenuto, senza il suono di un gong?

Chi userà la racchetta? Chi si prepara a fare climbing?

Chi ascolterà Arturo Toscanini dirigere un’orchestra e un coro fatti di santi, demoni e mostri?

Quanti animali sono saliti su quest’arca di marmo a godersi il sole raggiato dell’abside, sotto l’aquila imperiale?

A quanti turisti la nostra “Statua della Libertà” racconterà di essere la sorella più vecchia di quella icona pop a stelle e strisce di Auguste Bartholdi?

La nostra è nata in epoca napoleonica, circa 60 anni prima della sorella americana, da Camillo Pacetti, un docente di Brera. Rappresenta la Legge Nuova ed è lì sul balcone centrale del Duomo, come una severa Giulietta senza trecce.

Sotto di lei, a fianco del portone centrale, che tutti, per scaramanzia, vanno ad accarezzare, sorride il nostro piccolo dinosaurino (o forse cucciolo di un animale che non c’è), legame con un passato molto remoto.

Preistorico e appena nato, osserva le file di persone che entrano in Duomo senza guardarlo, magari ignorandone l’esistenza, quasi immagine ancestrale di una città antica e giovanissima, misteriosa e un po’ fantastica: Milano.

A presto…

Una Rosa per la moda e le donne

È una bella storia quella di Rosa Genoni, la grande signora della moda e dell’emancipazione femminile tra Ottocento e Novecento. La Settimana della Moda a Milano si è appena conclusa e tra qualche giorno sarà l’ 8 marzo: Rosa sembra unire queste date con la sua vita, la sua intelligenza e creatività.

L’Archivio di Stato di via Senato le sta dedicando una mostra fatta di abiti, bozzetti, documenti e ricordi, curata dalla nipote. Durerà fino al 17 marzo e può essere l’occasione anche per visitare questo bel palazzo che ha tante storie da raccontare.

Rosa nacque in Valtellina nel 1867 da una modesta famiglia (padre calzolaio, madre sarta), primogenita di ben 18 tra fratelli e sorelle.

Dopo la terza elementare fu mandata a Milano come “piscinina” da una zia che aveva un piccolo laboratorio di sartoria. La piscinina era il primo, o l’ultimo, livello del mondo della Moda, l’apprendista che faceva i più semplici lavori in sartoria (magari solo le pulizie) e consegnava gli abiti a casa delle clienti.

Salario minimo, tante ore di lavoro; queste ragazzine, però, imparavano un mestiere e affinavano il gusto vivendo accanto alla bellezza degli abiti sartoriali e all’eleganza delle clienti.

Il settore tessile era molto sviluppato in Lombardia da diversi secoli (pensiamo alle sete, alle lane, alle filande!) e richiamava molta manodopera femminile.

Inoltre la “moda” si stava diffondendo tra un numero sempre maggiore di donne, desiderose di migliorare il proprio aspetto, ciò grazie anche ai nuovi grandi magazzini, come gli Aux Villes d’Italie a Milano (diventati poi la Rinascente) che proponevano abiti pronti a buon prezzo, anche per corrispondenza, copiati dalle riviste francesi. Era Parigi, infatti, che dettava la moda del tempo.

Rosa è intelligente e capace; conseguita la licenza elementare, frequenta corsi di francese e intanto viene a contatto con i movimenti operai e femministi. Conosce, tra l’altro, anche Anna Kuliscioff, della quale sarà amica per sempre, condividendone tante iniziative, e anche sua stilista. Guardate l’eleganza del tailleur di Anna.

Quando viene invitata a Parigi come interprete ad un congresso politico, Rosa non ha esitazioni. Anche se ancora minorenne resta nella capitale francese, lavorando in diversi ateliers per imparare i segreti della produzione e del lavoro di équipe necessario per realizzare un abito.

Tornata a Milano la sua carriera esplode: diventa direttrice di diverse case di moda, partecipa all’Expo 1906 vincendo il primo premio per lo stand dove espone i suoi abiti, tiene corsi di sartoria e di storia della moda all’Umanitaria, istituzione filantropica milanese che esiste tuttora.

Pioniera appassionata  e consapevole di un made in Italy ancora in divenire, crea abiti che traggono ispirazione dall’eleganza di modelli storici italiani.

Veste il mondo che conta e le grandi attrici dell’epoca, come Lyda Borelli, ma non rinuncia nè a formarsi una famiglia, nè all’impegno civile e sociale.

Il suo incontro con un avvocato milanese, Alfredo Podreider , sarà lungo, felice e allietato dalla nascita di Fanny.

Accanto alla crescita professionale, Rosa Genoni continua l’impegno politico e femminista per i diritti delle donne.

Nel 1908 crea e indossa l’abito Tanagra, ispirato alla cultura classica, ma fluido e avvolgente, considerato ancora oggi una sintesi della donna  intelligente, libera e femminile, pensata dalla stilista.

Aiuta anche le detenute di San Vittore realizzando un ambulatorio medico e una sartoria all’interno del carcere, perchè la salute, il lavoro e il bello possano portare le donne recluse al riscatto personale e sociale; ecco una creazione, l’Araba Fenice, che alcune detenute hanno dedicato  a Rosa.

Gli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale la vedono impegnata come pacifista. Nel 1915 partecipa a L’Aja al Congresso Internazionale delle Donne per la Pace; la figlia Fanny, però, si ammala e Rosa rinuncia a un ulteriore incontro femminista negli USA.

Quando si ritirerà a vita privata, già vedova, si avvicinerà alla teosofia di R. Steiner e alle colture biodinamiche che uno dei suoi fratelli applicherà per primo in Australia dove era emigrato.

Rosa attraversò due secoli intensi, con grande apertura, cogliendone molte tematiche che saranno sviluppate, e non ancora risolte, negli anni successivi: Famiglia, Lavoro, Diritti Civili, Parità, Istruzione, Solidarietà attiva.
Una donna contemporanea… di ieri.

A presto…