Pasqua tra fede, arte e cultura – San Vito al Pasquirolo

Tempo di Quaresima, di devozione, di riti che fanno parte della nostra memoria e che, forse in parte, oggi sono stati dimenticati…

Iniziamo un breve itinerario pasquale riprendendo una tradizione che si ripeteva ogni Venerdì Santo: la visita a sette chiese per pregare davanti al Sepolcro di Cristo. Queste chiese non saranno inserite in un percorso preciso, ma ciò che le lega è scoprire come diversi artisti (noti o meno conosciuti) abbiano, nel tempo, rappresentato i momenti legati alla Pasqua.

La prima chiesa del nostro cammino (ci renderemo conto di quante chiese ci siano ancora oggi nel centro storico, nucleo della antica Milano) è San Vito al Pasquirolo, il cui nome fa venire in mente la Pasqua. Si trova in un piccolo slargo tra corso Europa e corso Vittorio Emanuele.

Questa chiesetta (citata per la prima volta in un documento del 1145 come Viti Ecclesia in Pascuirolo Portae Horienthalis) probabilmente fu costruita tra le rovine delle Terme Erculee volute dall’Imperatore romano Massimiano e distrutte dal Barbarossa.

Qualche resto lo vediamo ancora oggi in alcune aiuole trasandate davanti alla chiesa, oppure nel sotterraneo del vicino CMC (Centro Culturale di Milano) che, per fortuna, ne ha rispetto.

Non è una chiesa importante, ma iniziamo da qui il nostro percorso per lo strano titolo “Pasquirolo” con il quale è conosciuta, termine evocativo di un’altra tradizione milanese. Infatti “Pasquirolo” era detto colui che si confessava e si comunicava solo a Pasqua. Come i nostri antenati siano arrivati a questo termine dialettale non lo sappiamo proprio. Pascuum, in latino, era il campo, il pascolo. Intorno a San Vito, infatti, si trovavano campi incolti tra le rovine romane, dove pascolavano gli animali.

La chiesetta, nel Seicento, era “ridotta a tale vecchiezza che minacciava rovina imminente” (secondo lo storico milanese Lattuada) tanto che il Cardinale Federico Borromeo la fece rifare in stile barocco con un portale importante arricchito da colonne corinzie, disegnato da Bartolomeo della Rovere, detto Il Genovesino.

Interessanti sono le pareti laterali e il piccolo campanile in mattoni col tetto a capanna, che sembra guardare spaesato l’ambiente intorno.

La nostra chiesetta non ebbe vita facile nel secolo scorso, ma riuscì a sopravvivere prima alle bombe del 1943, che la risparmiarono, poi allo scempio degli Anni Sessanta, con la demolizione di vecchi edifici che la attorniavano e con le nuove costruzioni che diedero a questa zona l’aspetto attuale, peraltro piuttosto brutto.

Quasi un ex-voto per lo scampato pericolo, da parte di San Vito, fu il ritrovamento, negli scavi, del magnifico busto di Ercole, ora esposto al Civico Museo Archeologico, con altri reperti riemersi dai secoli durante i recenti lavori della metropolitana blu.

L’interno della chiesa ha un’unica navata ed è decorata da affreschi dei Fiammenghini, ma una imponente iconostasi, tipica della liturgia ortodossa, modifica l’aspetto tradizionale cui siamo abituati.

Infatti da anni la gesetta del Pasquiroeu continua il suo cammino con i fedeli ortodossi, che l’hanno resa vivace con le icone, i fiori e i colori della loro tradizione.

In fondo l’Editto di Costantino, con il quale si stabiliva la libertà di culto, è stato promulgato proprio a Milano e molte sono le vie che portano alla vetta…

A presto…

Il caffè: una tazzina di storia milanese

Quanta storia si trova in una tazzina di caffè! Una leggenda racconta che furono delle caprette yemenite a “scoprire” per prime le proprietà eccitanti di questa pianta, brucandone le drupe, cioè le bacche.

Le origini del caffè sono comunque incerte (Etiopia, Arabia…) e anche la sua preparazione è stata molto diversa nei secoli e nei luoghi. Anche oggi una tazzina di caffè è differente non solo se bevuta a Napoli, a Istanbul o a New York, ma persino nei bar della stessa città i gusti e le miscele usate non sono uguali. Ecco Starbucks di piazza Cordusio.

In Italia, per quanto riguarda la preparazione del caffè, si è passati dall’infuso, alla caffettiera napoletana, alla moka (messa a punto dalla Bialetti nel 1933), all’espresso (dove c’è un po’ di Milano grazie all’ingegner Luigi Bezzera che, nel 1901, inventò la macchina per prepararlo all’istante), via via fino alle contemporanee capsule.

Anche i consumatori di caffè sono cambiati nei secoli: inizialmente, in Medio Oriente, lo si beveva nelle cerimonie sacre o lo si utilizzava come medicamento contro il morbillo, i calcoli e la tosse, secondo quanto consigliava, nell’ XI secolo, il grande medico arabo Avicenna… proviamoci!

Presto, però, il caffè, il cosiddetto “vino d’Arabia”, divenne una bevanda social. Nacquero, sembra a Costantinopoli, le prime caffetterie.

I commerci portarono via via il caffè anche in Occidente e verso il XVII secolo si aprirono locali in vari paesi come in Francia, con il mitico “Cafè Le Procope” (aperto a Parigi dal siciliano Francesco Procopio dei Coltelli), dove, mentre lo si beveva, circolavano le nuove idee che porteranno all’Illuminismo.

In Italia il caffè si diffuse a partire dal Settecento e fu subito “vera gloria”. A metà secolo il Goldoni descrisse ne “La bottega del caffè” il microcosmo umano che la frequentava. Anche il Piccolo Teatro, durante l’Expo 2015, ha reso omaggio al caffè, fonte di energia, riproponendo questa commedia, sempre attuale.

A Milano i primi “caffè” si diffusero, a partire dal Settecento, dapprima nella zona intorno al Duomo, ben diversa da come la vediamo oggi.

Una “tazza di caffè” ci permette, quindi, di dare un’occhiata al nostro passato prossimo. Le botteghe del caffè erano luoghi eleganti e “colti”. Si beveva caffè, ma si leggevano testi anche stranieri, si intrecciavano idee sulla politica, la cultura, l’attualità, si giocava d’azzardo, nascevano amori e appuntamenti segreti.

Fu proprio tra i tavolini del “Caffè del Greco”, il mitico Demetrio, al Rebecchino (l’isolato alla destra del Duomo) che nel 1764 Pietro Verri fece nascere la rivista “Il Caffè”, con altri intellettuali. Scriveva: “Il caffè risveglia la mente e rallegra l’animo

Tra questi c’era anche Cesare Beccaria, la cui moglie Teresa darà alla luce Giulia (futura madre di Alessandro Manzoni), figlia però di Alessandro Verri (fratello di Pietro) e non del legittimo marito, sul cui cognome (Beccaria … becco) ironizzarono spesso i contemporanei.

Il Settecento e l’Ottocento furono anni formidabili per la nostra città. Alla dominazione spagnola era seguita quella austriaca di Maria Teresa e del figlio Ferdinando; poi ci furono la parentesi napoleonica (alla quale dobbiamo l’attuale facciata del Duomo con la nostra “Statua della Libertà“), il ritorno austriaco, le Cinque Giornate e infine l’Unità d’Italia con Vittorio Emanuele II.

I “caffè” parteciparono a questo fermento politico, sociale e culturale, tanto che si divisero anche per le idee dei frequentatori. C’era il caffè più conservatore (il “Caffè della Cecchina”) e quello più rivoluzionario (il “Caffè della Peppina”). Al “Caffè del Duomo” nel 1847 nacque il manifesto che invitava allo sciopero del fumo contro il monopolio austriaco del tabacco; con i tavolini e gli arredi del “Caffè Martini” si fecero le barricate in piazza della Scala. Fu dunque un periodo di grandi fermenti, tensioni e scontri.

Anche tra i caffè ci furono molte novità: se ne aprirono e se ne chiusero alcuni, altri cambiarono il nome o i proprietari… Milano, per qualcuno, era già una città da bere? Stendhal scriveva: “Una delle cose più gradevoli per me a Milano, è bighellonare di caffè in caffè.

A fine Settecento era intanto nata la Scala e nei caffè accanto si facevano i casting per le opere, si stipulavano contratti, si viveva la musica, magari bevendo la “barbajada“, connubio tra caffè, panna e cioccolata, e si giocava d’azzardo.

Cosa rimane oggi di questi caffè? Certamente il bar “Cova”, già “Caffè del Giardino“, che aveva servito, nell’Ottocento, tanti caffè a Giuseppe Verdi e (alcuni decenni dopo, durante la prima guerra mondiale) molti Martini a Ernest Hemingway.

Nel 1950 il “Cova” si trasferì da piazza della Scala in via Montenapoleone. Qui una tazzina un po’ pettegola ci ha raccontato che questo locale, nella prima metà dell’Ottocento, comperava il latte che la bellissima contessa Giulia Samoyloff aveva utilizzato per il proprio bagno quotidiano. Un domestico lo raccoglieva e sembra che gli speciali “sorbetti alla panna” andassero a ruba tra i nobili maschi milanesi. Solo storie?

Nel giugno del 1874 nacque la Galleria, dopo aver realizzato la nuova piazza del Duomo, demolendo il coperto del Figini e il Rebecchino. La Galleria vide aprire, dopo scandali e mazzette, nuovi locali: “Biffi“, “Savini“, “Grand’Italia” e il mitico “Camparino“, arredato ancora oggi come un tempo.

Intanto Milano cresce, si espande, i caffè escono via via dal centro e diventano veri e propri locali, dove ci si incontra a diverse ore del giorno per colazione, pause, aperitivo, happy hour, spuntino di mezzogiorno. Una curiosità: a Milano il buffet, come ci racconta il Verri, nacque a Palazzo Reale dove, durante un ballo di corte dell’Arciduca Ferdinando, venne allestita “una stanza, ornata elegantemente in figura di bottega di caffè, e ciascuno andava a prendere quel che voleva: dolci, frutti, gelati,… vini”. Era già nata l’apericena!

Ed ora beviamoci insieme una tazzina di caffè.

A presto…