Milano, Pia Casa delle Convertite di Santa Valeria, 17 ottobre 1608.
La piccola cella di tre metri per uno e ottanta si apre davanti a Suor Virginia, la monaca peccatrice giudicata “colpevolissima” di “plurima, gravia… et atrocissima delicta” negli Atti del Tribunale Ecclesiastico.
Sarà murata viva per sempre, collegata al mondo solo da uno sportello per il cibo e da una finestrella per far entrare un filo di cielo.
Le passioni e gli orrori della sua vita resteranno un ricordo e Virginia avrà tempo per ripensare al suo passato ed espiare le proprie colpe. Quali colpe? La monaca, al processo, aveva dichiarato di essere sempre stata vittima e che il Male doveva essere cercato fuori, non dentro di lei. Aveva firmato la sua deposizione, una mano storpiata dalla tortura.
Forse l’orgoglio di casta, che l’aveva portata anche a ribellarsi all’arresto sguainando una spada, era stato ferito più della mano sottoposta al tormento dei sibilli per il “tempo di due Miserere”.
Si sentiva vittima del padre, che l’aveva malmonacata a undici anni e rinchiusa nel convento di Monza, feudo familiare, per godersi l’eredità lasciata a Virginia dalla madre.
Nel convento era considerata la “Signora”, riverita e potente; alcuni, però, avevano via via saputo leggere in lei una sorta di inquietudine interiore e l’avevano quasi guidata, passo a passo, allo scopo di rendersela amica ed ottenere vantaggi, verso le braccia di Paolo Osio, il nobile che viveva nel palazzo accanto al convento.
Si sentiva vittima anche di Don Arrigone, il curato della chiesa vicina. Egli, che già aveva un’amante in canonica, aveva tessuto una trama diabolica, conducendo la monaca con bugie, stratagemmi e “incantamenti” (anche una calamita benedetta, fatta baciare ai due innamorati) a cedere al desiderio di Paolo, amico e benefattore del religioso.
Il parroco, che forse desiderava anche per sè Virginia, per interesse o trofeo sociale, sarà condannato dal Tribunale a tre anni di remi su una nave spagnola nel Regno di Napoli.
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Virginia aveva cercato in ogni modo di allontanare Paolo dalla sua vita: aveva gettato le chiavi con le quali il nobile entrava in convento, grazie anche alla complicità non disinteressata di alcune monache. Aveva fatto voti, si era sottoposta perfino a sortilegi e filtri contro la propria passione, fatti anche con gli escrementi dell’amato.
Le monache che le vivevano accanto coprivano quanto stava accadendo, anche per raccogliere le briciole del vigore di Paolo, quando Virginia si rifiutava o cadeva ammalata, forse per il senso di colpa.
Le consorelle l’avevano anche aiutata quando Virginia aveva partorito prima un bimbo nato morto, successivamente la piccola Alma, frutto di quelle due anime piene di amore e di tormenti. Paolo aveva riconosciuto la bimba, che era vissuta nel palazzo accanto al monastero. Forse il ricordo di questa figlia, un sacchettino con un ricciolo, accompagnò Virginia nei pensieri della sua lunga prigionia.
A Monza lo “strano” matrimonio tra Paolo e la “Signora” era sulla bocca di tutti e troppi sapevano e parlavano. Caterina, una conversa, cameriera di Virginia, minacciò di svelare tutta la tresca ai superiori della Diocesi.
Forse sarebbe bastato comperare il suo silenzio; Paolo, invece, in un estremo tentativo di difendere l’onore dell’amata, fece tacere per sempre la conversa, inscenandone la fuga. Certi delitti sono ancora gli stessi dopo secoli…
A questo omicidio ne seguirono altri. Furono uccisi dai suoi bravi lo speziale e il fabbro che avevano parlato troppo.
Tutto precipitò: Virginia, che non aveva voluto ascoltare per tempo gli ammonimenti del Cardinale, Federigo Borromeo, venne arrestata e condotta a Milano presso il monastero di Sant’Ulderico al Bocchetto a Porta Vercellina.
Osio, accusato di omicidio, si era nascosto in convento su consiglio di Don Arrigone. A questo punto non poté far altro che fuggire rifugiandosi nella Bergamasca, allora sotto la Repubblica di Venezia.
Durante la fuga Paolo cercò di liberarsi con la violenza delle due monache che lo avevano seguito, spaventate dalle accuse che avrebbero potuto esser loro rivolte. Tuttavia Suor Ottavia e Suor Benedetta riuscirono a sopravvivere. Furono arrestate e confessarono sotto tortura quanto era avvenuto al convento di Monza, dando conferma dei delitti commessi. Suor Ottavia morì per le ferite, mentre Suor Benedetta venne murata viva come altre due consorelle complici dell’accaduto.
Paolo, ormai braccato, tentò con ogni mezzo di salvare Virginia, tornando a Milano e mettendo a repentaglio la propria vita. Si rifugiò nel palazzo dell’amico conte Taverna e qui sarà fatto uccidere a tradimento dal nobile, legato al governatore spagnolo e allettato dalla taglia.
Si dice che ancora oggi, in quello che ora si chiama Palazzo Isimbardi, in corso Monforte, si sentano misteriosi rumori provenire dai sotterranei, dove fu ucciso il nobile.