Milano – Monza andata e ritorno: la tragica vita di una monaca famosa (Parte Terza)

Milano, convento di Santa Valeria, 25 settembre 1622.

La porta della cella, dove era stata rinchiusa per tredici anni Suor Virginia, viene abbattuta.

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La monaca ha ricevuto un provvedimento di clemenza da parte del Cardinale. La priora del convento di Santa Valeria, luogo di detenzione per prostitute convertite e monache peccatrici, aveva più volte scritto a Federigo Borromeo per mettere in luce il cammino spirituale di preghiera e penitenza di Virginia.

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La monaca ha 45 anni, è debole e malandata e non c’è più traccia della bellezza e del fascino di un tempo. È profondamente cambiata dopo aver trascorso la lunga prigionia in una cella buia e maleodorante, sempre con lo stesso abito e su un pagliericcio buttato sul pavimento che veniva cambiato ogni sei mesi, ma che dopo due era già logoro e sudicio.

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Lei, la “Signora”, era sopravvissuta senza impazzire alla fame e alla sporcizia, al freddo e al caldo e, soprattutto, alla solitudine; sola con una Bibbia per tredici anni, abbandonata da tutti, in primo luogo dalla sua famiglia.

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Al processo si era dichiarata vittima del padre che aveva anteposto l’interesse del casato alla vita della figlia. Quando fu arrestata e venne processata, la potente famiglia De Leyva l’aveva disconosciuta, cancellandola persino dall’albero genealogico, pur non rinunciando ai suoi beni. Per difendere l’onore del casato le avevano persino fatto avere una fialetta di veleno, che era stata sostituita in carcere con un’altra non letale.

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Anche i Marino, la ricca famiglia della madre, avevano chiuso il cuore e la porta del palazzo dove era cresciuta.

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Erano tempi difficili. Virginia era vissuta in un’epoca complessa, quella della Controriforma, dove convivevano opere di moralizzazione religiosa e l’efferatezza dell’Inquisizione. Di questi anni sono il Compedium Maleficarum di Francesco Guazzo (1630), con l’Imprimatur del Cardinale, e i supplizi di tanti disperati, come Caterina Medici (1617) e Gian Giacomo Mora (1630), contemporanei quindi di Virginia.

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La monaca aveva pagato caro sia l’amore per Paolo, il padre di sua figlia, che le aveva usato violenza… trascinandola in un vortice di passione e dolore, sia il potere feudale, che aveva ingolosito chi la compiaceva per il proprio vantaggio.

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Quanto fu vittima e quanto colpevole? In un’opera di Giovanni Testori, Virginia arriva a inveire anche contro la propria madre che aveva generato un mostro: lei.

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Forse Virginia aveva affrontato, durante la prigionia, una lettura interiore più profonda della propria vita e non sappiamo, possiamo solo immaginare, quali fantasmi, quali ombre, quali visioni abbiano affollato la sua mente e le abbiano tenuto compagnia per non farla impazzire. Forse anche il ricordo della figlia?

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Le monache del convento di Santa Valeria parlavano di lei quasi come di una santa, dedita alla preghiera e alla penitenza; non fu però una creatura fragile e vinta quella graziata, tanto da avere la forza di chiedere e ottenere un colloquio col Cardinale Federigo.

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Il loro  rapporto all’inizio fu diffidente e difficile tanto che  il Cardinale arrivò ad apostrofarla con durezza: “Come mai non ti vergogni, impudica, di accostarti al tuo Pastore?… Tu, degna di ogni supplizio, di morire in prigione… vuoi che ordini per te punizioni anche più terribili? Non sei tu colei che tanti anni fa eri così altera e sdegnosa?” Dopo queste dure parole, però, il Cardinale, mosso a compassione, fece anche acquistare per lei una nuova veste e quanto le occorreva.

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Ci furono altri incontri ed un fitto carteggio. Non solo, Virginia volle ed ottenne l’assoluzione proprio da Federigo. Era profondamente pentita, ma non doma e le restava, forse, un po’ dell’antica fierezza dei suoi antenati.

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Federigo divenne via via talmente convinto del pentimento di Virginia che ne avrebbe voluto scrivere la biografia, ma la morte di lui, nel 1631, non lo rese possibile.

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Virginia non volle mai lasciare la cella della sua prigionia e si adoperò fino alla fine per essere vicina e aiutare le recluse. La vita religiosa, un tempo subita e odiata, era diventata una scelta di fede e un cammino verso Dio. Morì il 17 gennaio 1650, a 75 anni

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La vita di Virginia si divide tra il convento di Monza, della quale fu la “Signora”, nel periodo più noto della sua esistenza, e Milano, dove nacque (nientepopodimeno che a Palazzo Marino!) e visse fino alla fine dei suoi giorni. Il convento di Santa Valeria non esiste più, demolito nel Settecento, e rimane solo il ricordo di questa antica storia.

Oggi si possono fare quattro passi in via Santa Valeria, alle spalle di Sant’Ambrogio, e nei dintorni.

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Alcune lettere del carteggio tra Virginia e l’Arcivescovo sono custodite all’Ambrosiana, voluta dallo stesso Borromeo. In una di queste il Cardinale scrisse “ormai era una donna che non apparteneva più al mondo, ma a qualcosa che dava pace solo a guardarla”.

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Riposa in pace, Marianna, tuo vero nome, donna che hai avuto il coraggio e la forza di vivere tempi ostili.

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Milano – Monza andata e ritorno: la tragica vita di una monaca famosa (Parte Seconda)

Milano, Pia Casa delle Convertite di Santa Valeria, 17 ottobre 1608.

La piccola cella di tre metri per uno e ottanta si apre davanti a Suor Virginia, la monaca peccatrice giudicata “colpevolissima” di “plurima, gravia… et atrocissima delicta” negli Atti del Tribunale Ecclesiastico.

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Sarà murata viva per sempre, collegata al mondo solo da uno sportello per il cibo e da una finestrella per far entrare un filo di cielo.

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Le passioni e gli orrori della sua vita resteranno un ricordo e Virginia avrà tempo per ripensare al suo passato ed espiare le proprie colpe. Quali colpe? La monaca, al processo, aveva dichiarato di essere sempre stata vittima e che il Male doveva essere cercato fuori, non dentro di lei. Aveva firmato la sua deposizione, una mano storpiata dalla tortura.

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Forse l’orgoglio di casta, che l’aveva portata anche a ribellarsi all’arresto sguainando una spada, era stato ferito più della mano sottoposta al tormento dei sibilli per il “tempo di due Miserere”.

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Si sentiva vittima del padre, che l’aveva malmonacata a undici anni e rinchiusa nel convento di Monza, feudo familiare, per godersi l’eredità lasciata a Virginia dalla madre.

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Nel convento era considerata la “Signora”, riverita e potente; alcuni, però, avevano via via saputo leggere in lei una sorta di inquietudine interiore e l’avevano quasi guidata, passo a passo, allo scopo di rendersela amica ed ottenere vantaggi, verso le braccia di Paolo Osio, il nobile che viveva nel palazzo accanto al convento.

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Si sentiva vittima anche di Don Arrigone, il curato della chiesa vicina. Egli, che già aveva un’amante in canonica, aveva tessuto una trama diabolica, conducendo la monaca con bugie, stratagemmi e “incantamenti” (anche una calamita benedetta, fatta baciare ai due innamorati) a cedere al desiderio di Paolo, amico e benefattore del religioso.

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Il parroco, che forse desiderava anche per sè Virginia, per interesse o trofeo sociale, sarà condannato dal Tribunale a tre anni di remi su una nave spagnola nel Regno di Napoli.

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Virginia aveva cercato in ogni modo di allontanare Paolo dalla sua vita: aveva gettato le chiavi con le quali il nobile entrava in convento, grazie anche alla complicità non disinteressata di alcune monache. Aveva fatto voti, si era sottoposta perfino a sortilegi e filtri contro la propria passione, fatti anche con gli escrementi dell’amato.

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Le monache che le vivevano accanto coprivano quanto stava accadendo, anche per raccogliere le briciole del vigore di Paolo, quando Virginia si rifiutava o cadeva ammalata, forse per il senso di colpa.

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Le consorelle l’avevano anche aiutata quando Virginia aveva partorito prima un bimbo nato morto, successivamente la piccola Alma, frutto di quelle due anime piene di amore e di tormenti. Paolo aveva riconosciuto la bimba, che era vissuta nel palazzo accanto al monastero. Forse il ricordo di questa figlia, un sacchettino con un ricciolo, accompagnò Virginia nei pensieri della sua lunga prigionia.

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A Monza lo “strano” matrimonio tra Paolo e la “Signora” era sulla bocca di tutti e troppi sapevano e parlavano. Caterina, una conversa, cameriera di Virginia, minacciò di svelare tutta la tresca ai superiori della Diocesi.

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Forse sarebbe bastato comperare il suo silenzio; Paolo, invece, in un estremo tentativo di difendere l’onore dell’amata, fece tacere per sempre la conversa, inscenandone la fuga. Certi delitti sono ancora gli stessi dopo secoli…

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A questo omicidio ne seguirono altri. Furono uccisi dai suoi bravi lo speziale e il fabbro che avevano parlato troppo.

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Tutto precipitò: Virginia, che non aveva voluto ascoltare per tempo gli ammonimenti del Cardinale, Federigo Borromeo, venne arrestata e condotta a Milano presso il monastero di Sant’Ulderico al Bocchetto a Porta Vercellina.

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resti del chiostro durante la demolizione

Osio, accusato di omicidio, si era nascosto in convento su consiglio di Don Arrigone. A questo punto non poté far altro che fuggire rifugiandosi nella Bergamasca, allora sotto la Repubblica di Venezia.

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Durante la fuga Paolo cercò di liberarsi con la violenza delle due monache che lo avevano seguito, spaventate dalle accuse che avrebbero potuto esser loro rivolte. Tuttavia Suor Ottavia e Suor Benedetta riuscirono a sopravvivere. Furono arrestate e confessarono sotto tortura quanto era avvenuto al convento di Monza, dando conferma dei delitti commessi. Suor Ottavia morì per le ferite, mentre Suor Benedetta venne murata viva come altre due consorelle complici dell’accaduto.

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Paolo, ormai braccato, tentò con ogni mezzo di salvare Virginia, tornando a Milano e mettendo a repentaglio la propria vita. Si rifugiò nel palazzo dell’amico conte Taverna e qui sarà fatto uccidere a tradimento dal nobile, legato al governatore spagnolo e allettato dalla taglia.

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Si dice che ancora oggi, in quello che ora si chiama Palazzo Isimbardi, in corso Monforte, si sentano misteriosi rumori provenire dai sotterranei, dove fu ucciso il nobile.

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continua…

Milano – Monza andata e ritorno: la tragica vita di una monaca famosa (Parte Prima)

Quando attraversiamo piazza della Scala o passeggiamo in quella bolla fuori dal tempo che è la tranquilla piazza San Fedele, non dimentichiamoci la lunga storia di Marianna de Leyva, che nacque a Palazzo Marino verso la fine del 1575.

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Il Manzoni aveva parlato con estremo pudore di lei, la suor Gertrude dei Promessi Sposi. Un filo di vita e di morte sembra quasi legare i due personaggiLa statua dello scrittore si trova in piazza San Fedele, di fianco al palazzo in cui nacque Marianna e davanti ai gradini della chiesa sui quali egli cadde trovando poi la morte.

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La bimba aveva antenati  veramente VIP. Il bisnonno paterno era stato il primo governatore spagnolo di Milano e il padre era un noto condottiero dalla sfolgorante carriera alla corte del Re di Spagna.

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Antonio, bisnonno di Marianna

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Martino, padre di Marianna

Da parte di madre, Marianna discendeva da una prestigiosa famiglia di banchieri genovesi, da quel Tomaso Marino ricchissimo e tanto chiacchierato da essere addirittura vittima di una maledizione che si “sarebbe” dovuta perpetuare nel tempo. Di quest’uomo, al quale si deve Palazzo Marino, sede del nostro Comune, parleremo in un piccolo cameo a lui dedicato, tanto intrigante è la sua vicenda umana.

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Tomaso Marino, nonno materno di Marianna

Torniamo alla piccola Marianna. Per poco tempo potè conoscere il calore di una famiglia.

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dal fumetto di A. La Monica (in arte Alexader Tripood)

Il Fato, infatti, le tolse subito la madre Virginia, morta di peste quando la bimba aveva pochi mesi. La piccola crebbe affidata alle zie in un “appartamento” di Palazzo Marino. Eccone la planimetria:

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Non sappiamo molto di questo periodo; l’ambiente in cui visse la sua infanzia era piuttosto bigotto e, forse, infelice. Sembra che una zia avesse avuto dal proprio matrimonio poco amore, tanti figli e… la sifilide. Il Manzoni ci dice che Marianna crebbe condizionata dal suo futuro di monaca, succube di un padre autoritario.  Probabilmente non fu così, perché il padre era spesso assente preso dalla sua carriera prestigiosa.

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Alla sua morte Virginia aveva lasciato eredi di ingenti sostanze la bimba e il figlio maschio nato da un primo matrimonio. Le altre quattro figlie del primo marito intentarono causa alla piccola sorellastra. L’eredità di Marianna ne uscì ridimensionata, ma comunque tanto sostanziosa da far gola anche a suo padre.

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Quando questi si risposò con una nobildonna spagnola e si ritrovò in difficoltà finanziarie, la strada della dodicenne Marianna fu segnata: doveva diventare monaca. Nonostante avesse trovato il coraggio di manifestare al padre il proprio desiderio di una vita diversa, il genitore fu sordo e irremovibile; non le rivolse più la parola finché la ragazzina accettò il proprio destino, sperando di essere “nuovamente” amata.

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Così le porte del prestigioso convento di Santa Margherita a Monza, che era parte del feudo dei de Leyva, si richiusero alle spalle dei desideri di Marianna e la sua eredità rimase al padre.

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Come avrebbe potuto la ragazza fare diversamente? Il monacandato era spesso la sorte che toccava a molte giovani donne di nobili natali, per non disperdere il patrimonio familiare. E le loro aspirazioni?… non contavano nulla.

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Le cronache ci presentano una Suor Virginia (Marianna aveva preso il nome della madre), altera contessa di Monza attenta ai suoi obblighi di Signora verso il feudo e severa nell’educare le fanciulle a lei affidate.

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Il Fato ci mise, però, di nuovo lo zampino. Il convento confinava con il palazzo di una prestigiosa famiglia, gli Osio. Il più giovane rampollo di questa, insieme ai suoi amici, usava stuzzicare le educande del convento.

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Giovanni Paolo, lo “sciagurato Egidio” del Manzoni, aveva adocchiato la quindicenne Isabella, una allieva di Marianna. Il giovane la “tentò”: baciò una mela e gliela lanciò. Isabella la raccolse.

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A. Tripood

Suor Virginia vide, la richiamò e, forse, cominciò ad insinuarsi in lei stessa il desiderio di assaggiare il frutto avvelenato della “conoscenza”.

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Suor Virginia avvertì i genitori della fanciulla che intervennero subito; la tolsero dal convento e la punirono crudelmente dandola in sposa, dopo solo quindici giorni, a un anziano e ricco signore. Per Isabella era finito “il Tempo delle mele”.

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La Signora di Monza aveva deciso di  condannare all’esilio il nobile, accusato anche di aver ucciso in duello un uomo dei de Leyva. La Superiora del convento, però, amica della famiglia Osio, con la madre del giovane, fece pressioni su Suor Virginia e la convinse a ritirare la condanna. Paolo, così tornò di nuovo nel palazzo vicino al convento.

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A. Tripood

Dopo qualche tempo il giovane scrisse a Suor Virginia una lettera. Fu per ringraziarla, per sfida, per capriccio, per attrazione? Non lo sappiamo.

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Come in una sorta di antico Social, a questo punto entrarono in gioco gli “amici”, a conoscenza di quanto stava avvenendo. Gioca un ruolo di primo piano Don Arrigone, parroco della vicina chiesa, il più abbietto e subdolo personaggio della vicenda. Amico di Paolo, gli consigliò  come scrivere le lettere indirizzate a Suor Virginia per farla cedere (la voleva anche per sé?).

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La Signora fu sempre più avviluppata in una ragnatela di persone spinte da legami di interesse, di compiacenza, di passioni. In lei s’intrecciarono solitudine e scelte subite, tentazioni, desiderio e senso di colpa, sicurezza del potere, menzogne e superstizioni…

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Questo è solo l’inizio di una storia tragica e intrigante, che inizia e si conclude a Milano. Il seguito alla prossima puntata, dopo le Feste.

Continua…