Quando attraversiamo piazza della Scala o passeggiamo in quella bolla fuori dal tempo che è la tranquilla piazza San Fedele, non dimentichiamoci la lunga storia di Marianna de Leyva, che nacque a Palazzo Marino verso la fine del 1575.
Il Manzoni aveva parlato con estremo pudore di lei, la suor Gertrude dei Promessi Sposi. Un filo di vita e di morte sembra quasi legare i due personaggi… La statua dello scrittore si trova in piazza San Fedele, di fianco al palazzo in cui nacque Marianna e davanti ai gradini della chiesa sui quali egli cadde trovando poi la morte.
La bimba aveva antenati veramente VIP. Il bisnonno paterno era stato il primo governatore spagnolo di Milano e il padre era un noto condottiero dalla sfolgorante carriera alla corte del Re di Spagna.
Da parte di madre, Marianna discendeva da una prestigiosa famiglia di banchieri genovesi, da quel Tomaso Marino ricchissimo e tanto chiacchierato da essere addirittura vittima di una maledizione che si “sarebbe” dovuta perpetuare nel tempo. Di quest’uomo, al quale si deve Palazzo Marino, sede del nostro Comune, parleremo in un piccolo cameo a lui dedicato, tanto intrigante è la sua vicenda umana.
Torniamo alla piccola Marianna. Per poco tempo potè conoscere il calore di una famiglia.
Il Fato, infatti, le tolse subito la madre Virginia, morta di peste quando la bimba aveva pochi mesi. La piccola crebbe affidata alle zie in un “appartamento” di Palazzo Marino. Eccone la planimetria:
Non sappiamo molto di questo periodo; l’ambiente in cui visse la sua infanzia era piuttosto bigotto e, forse, infelice. Sembra che una zia avesse avuto dal proprio matrimonio poco amore, tanti figli e… la sifilide. Il Manzoni ci dice che Marianna crebbe condizionata dal suo futuro di monaca, succube di un padre autoritario. Probabilmente non fu così, perché il padre era spesso assente preso dalla sua carriera prestigiosa.
Alla sua morte Virginia aveva lasciato eredi di ingenti sostanze la bimba e il figlio maschio nato da un primo matrimonio. Le altre quattro figlie del primo marito intentarono causa alla piccola sorellastra. L’eredità di Marianna ne uscì ridimensionata, ma comunque tanto sostanziosa da far gola anche a suo padre.
Quando questi si risposò con una nobildonna spagnola e si ritrovò in difficoltà finanziarie, la strada della dodicenne Marianna fu segnata: doveva diventare monaca. Nonostante avesse trovato il coraggio di manifestare al padre il proprio desiderio di una vita diversa, il genitore fu sordo e irremovibile; non le rivolse più la parola finché la ragazzina accettò il proprio destino, sperando di essere “nuovamente” amata.
Così le porte del prestigioso convento di Santa Margherita a Monza, che era parte del feudo dei de Leyva, si richiusero alle spalle dei desideri di Marianna e la sua eredità rimase al padre.
Come avrebbe potuto la ragazza fare diversamente? Il monacandato era spesso la sorte che toccava a molte giovani donne di nobili natali, per non disperdere il patrimonio familiare. E le loro aspirazioni?… non contavano nulla.
Le cronache ci presentano una Suor Virginia (Marianna aveva preso il nome della madre), altera contessa di Monza attenta ai suoi obblighi di Signora verso il feudo e severa nell’educare le fanciulle a lei affidate.
Il Fato ci mise, però, di nuovo lo zampino. Il convento confinava con il palazzo di una prestigiosa famiglia, gli Osio. Il più giovane rampollo di questa, insieme ai suoi amici, usava stuzzicare le educande del convento.
Giovanni Paolo, lo “sciagurato Egidio” del Manzoni, aveva adocchiato la quindicenne Isabella, una allieva di Marianna. Il giovane la “tentò”: baciò una mela e gliela lanciò. Isabella la raccolse.
Suor Virginia vide, la richiamò e, forse, cominciò ad insinuarsi in lei stessa il desiderio di assaggiare il frutto avvelenato della “conoscenza”.
Suor Virginia avvertì i genitori della fanciulla che intervennero subito; la tolsero dal convento e la punirono crudelmente dandola in sposa, dopo solo quindici giorni, a un anziano e ricco signore. Per Isabella era finito “il Tempo delle mele”.
La Signora di Monza aveva deciso di condannare all’esilio il nobile, accusato anche di aver ucciso in duello un uomo dei de Leyva. La Superiora del convento, però, amica della famiglia Osio, con la madre del giovane, fece pressioni su Suor Virginia e la convinse a ritirare la condanna. Paolo, così tornò di nuovo nel palazzo vicino al convento.
Dopo qualche tempo il giovane scrisse a Suor Virginia una lettera. Fu per ringraziarla, per sfida, per capriccio, per attrazione? Non lo sappiamo.
Come in una sorta di antico Social, a questo punto entrarono in gioco gli “amici”, a conoscenza di quanto stava avvenendo. Gioca un ruolo di primo piano Don Arrigone, parroco della vicina chiesa, il più abbietto e subdolo personaggio della vicenda. Amico di Paolo, gli consigliò come scrivere le lettere indirizzate a Suor Virginia per farla cedere (la voleva anche per sé?).
La Signora fu sempre più avviluppata in una ragnatela di persone spinte da legami di interesse, di compiacenza, di passioni. In lei s’intrecciarono solitudine e scelte subite, tentazioni, desiderio e senso di colpa, sicurezza del potere, menzogne e superstizioni…
Questo è solo l’inizio di una storia tragica e intrigante, che inizia e si conclude a Milano. Il seguito alla prossima puntata, dopo le Feste.