Una statua per Cristina Belgioioso, una protagonista del Risorgimento

È la prima milanese a cui è stato dedicato un monumento nella nostra città. Inaugurato qualche settimana fa e realizzato in bronzo da Giuseppe Bergomi, la statua di Cristina Belgioioso si trova nella piazzetta omonima vicino al palazzo del marito e alla casa del Manzoni.

In quest’opera Cristina è raffigurata nell’atto di alzarsi, interrompendo la lettura o quanto stava scrivendo.

L’idea del movimento è accentuata dalle balze dell’abito e dal colletto slacciato dal quale emerge un viso intenso, coi capelli raccolti e occhi grandi, aperti sulla realtà che la circonda.

La storia racconta che fu donna del Risorgimento, amica e sostenitrice di molte imprese e personaggi dell’Ottocento, scrittrice e animatrice di salotti, protagonista di cento avventure e tante vite. Ma chi fu veramente Cristina?

La sua storia

Cristina Trivulzio nacque il 28 giugno 1808 nel palazzo di famiglia in piazza Sant’Alessandro, discendente dell’antica dinastia della quale faceva parte quel Gian Giacomo, Maresciallo di Francia e grande condottiero, che sconfisse Ludovico il Moro, facendo cadere Milano sotto la dominazione francese.

La bimba fu battezzata con una sfilza di nomi nella vicina chiesa di Sant’Alessandro. Purtroppo rimase presto orfana di padre ed erede di leggendarie ricchezze e opere d’arte di inestimabile valore, di cui sarebbe venuta in possesso con la maggiore età o il matrimonio.

La madre Vittoria si risposò presto ed ebbe altri quattro figli dal nuovo marito, il Marchese Alessandro Visconti d’Aragona, che fece da buon patrigno a Cristina, legata per tutta la vita ai fratellastri.

Alessandro era un nobile di simpatie carbonare tanto da essere arrestato e imprigionato. Quando fu rilasciato, due anni dopo, era sconfitto nel corpo e nello spirito e la famiglia era ormai entrata sotto il controllo del Grande Fratello austriaco.

Cristina venne educata come una fanciulla dell’alta aristocrazia milanese del tempo, con ottimi insegnanti, tra i quali anche una pittrice, Ernesta Bisi, affiliata alla Carboneria, che le restò sempre amica.

La Marchesina apparteneva dunque ad una casata illustre, aveva una ricchezza inestimabile, buona cultura e un aspetto gradevole, forse vagamente dark… Come non essere chiesta in moglie?

Una zia, che faceva parte dell’aristocrazia milanese filoaustriaca, propose di unire famiglia e patrimonio Trivulzio facendole sposare il proprio figlio Giorgio. Cristina, però, rifiutò scegliendo invece un altro cugino, il Principe Emilio Barbiano di Belgioioso d’Este, bello, brillante, intelligente, ma libertino e dedito al gioco.

Le fastose nozze si tennero nella chiesa di San Fedele. La sedicenne Cristina, col matrimonio, divenne Principessa ed ebbe la disponibilità dell’enorme ricchezza degli avi.

Non fu, però, una unione felice, come aveva profetizzato un nobile, il Conte Crivelli, nei versi di uno scherzoso canto nuziale che Cristina conservò sempre tra le sue carte: “E sarà dunque ver, Cristina bella?/un “pezzo” principesco hai tu voluto?/che poi che teco alquanto avrà goduto/lussureggiando andrà con questa e quella/…/ma come indietro non si ritorna,/render solo potrai corna su corna”.

Purtroppo il Conte aveva ragione; dopo quattro anni, infatti, i coniugi si separarono amichevolmente e la Principessa, a vent’anni, si ritrovò libera, ricchissima e… ammalata di sifilide.

Intanto l’Occhio del Grande Fratello VIP, il Barone Carlo Torresani, capo della polizia austriaca a Milano, controllava Cristina, attento non solo alle frequentazioni e ai finanziamenti a favore dei movimenti risorgimentali, ma anche alla sua “moralità”. Ci furono, per tutta la vita, calunnie, “spetteguless”, anche confisca di beni e del passaporto, che poi la Principessa riusciva in qualche modo a riavere, del tutto o in parte, grazie alle conoscenze importanti del “contesto giusto” in cui viveva.

Nei suoi tanti viaggi in Italia e in Francia, spesso ufficialmente per curarsi, Cristina visse nel groviglio risorgimentale italiano facendo spesso da bancomat quasi illimitato. Fu anche l’animatrice di un salotto parigino dove si poteva incontrare il meglio di artisti e intellettuali.

Nella primavera del 1838, a Parigi, Cristina si accorse di aspettare un bambino, la cui paternità resta un mistero. Forse il padre era un famoso storico e intellettuale col quale la Principessa restò sempre in contatto, o forse un giovane e bellissimo musicista. In ogni caso Cristina fu e rimase la madre single di Maria.

Tra discussioni, studi e libri, la Principessa si avvicinò alla dottrina sociale della Chiesa e, tornata in Italia, si accorse della miseria e del degrado in cui vivevano i suoi contadini del castello avito di Locate.

Fondò un asilo, scuole, corsi di igiene, una cucina pubblica per bisognosi. Passò così per “sovversiva”, tanto che il buon Manzoni commentò: “Con la mania di quella signora… quando i contadini saranno tutti dotti, a chi toccherà coltivare la terra?”. Don Lisander, che abitava poco lontano da palazzo Belgioioso, proibì poi a Cristina di fare visita all’anziana madre dello scrittore, amica di vecchia data della Principessa. Troppo scandalosa e “diversa” dalla moglie, la dolcissima Enrichetta, sfinita da figli e maternità.

Cristina era realmente diversa e volle vivere mille avventure. Partecipò alle Cinque Giornate, scrisse libri, fondò riviste e giornali e, durante la breve vita della Repubblica Romana, diventò anche infermiera per curare i feriti.

Dopo le sconfitte risorgimentali, delusa dagli eventi e ricercata dagli Austriaci, fuggì in Medio Oriente scrivendo pagine disincantate e ironiche sulle sue esperienze di viaggio e sugli usi dei popoli che incontrava. Visitò anche un harem, che descrisse in modo ben diverso dalle fiabesche “Mille e un notte”.

Rimase in Medio Oriente diversi anni con la figlia, la governante e pochi amici, impiantando anche una sorta di azienda agricola dove si coltivavano gelsi, grano, orti… e oppio. Già abituata all’uso di pesanti antidolorifici, tutte le sere Cristina si concedeva una bella fumata col narghilè.

Quando subì un’aggressione, pensò di tornare in patria, preoccupata anche per il futuro della figlia. Trattò col governo austriaco il rimpatrio e la restituzione di tutti i beni. Era il 1855 e la Principessa fece un ritorno teatrale con un piccolo corteo del quale facevano parte anche un cavallo arabo, due levrieri afgani e due gatti d’angora. Grande Cri’, non si abbandonano mai gli animali.

Anticonformista, ribelle, ma lucidamente consapevole della forza di potere e denaro e, soprattutto, della cupidigia umana, “comprò” dal marito e dai parenti di lui il cognome Belgioioso per Maria che, come figlia illegittima, non avrebbe potuto ereditare nè titolo, nè beni nè, soprattutto, fare un buon matrimonio.

I tempi stavano cambiando e si realizzò l’agognata Unità d’Italia sotto i Savoia, come Cristina aveva sempre desiderato. Al ballo di gala in onore del Re, dato a Milano, però, Cristina non venne neanche invitata. Era una donna stanca e invecchiata, provata da vita, malattie e droghe che si procurava anche chiedendo aiuto a Cavour per sdoganare la merce. Il Conte l’aiutò irridendo con un amico quella donna ridotta all’oppio per procurarsi “quell’ebbrezza che i sensi non possono più darle”.

Visse gli ultimi anni tra Milano e il lago di Como, ospite della figlia diventata Marchesa Trotti e dama di corte. Sempre lucida e attiva si spense il 5 luglio del 1871 in poltrona, perchè non era in grado di morire in piedi come avrebbe voluto.

Alle donne lasciò questa riflessione riportata sul monumento di piazza Belgioioso:

Quanto c’è della sua storia in queste parole? Chi fu veramente Cristina?

A presto…

Cinque Giornate contro il virus… restando a casa

Oggi, 18 marzo, iniziano le Cinque Giornate di Milano e il coronavirus vorrebbe scatenare il suo attacco per raggiungere il picco di infezioni proprio in questi giorni. Come le Cinque Giornate sono state per Milano l’inizio del Risorgimento contro il nemico, così oggi dobbiamo combattere contro il Covid-19.

Ci siamo ricordati di alcuni canti che ci hanno tramandato i nostri nonni: “Varda Gyulai” e la “Bella Gigogin“.
Nella prima si ricorda al generale Gyulai, comandante delle truppe austro-ungariche in Lombardia, che: “Varda (guarda) Gyulai che ven la primavera“, la stagione della Libertà.

La “Bella Gigogin“, invece, scritta nel 1858 dal milanese Paolo Giorza, è un invito a Vittorio Emanuele II perchè “daghela avanti un passo” per la liberazione della Lombardia, che è rappresentata dalla Gigogin, una bella ragazza che non vuole mangiare polenta, gialla come la bandiera austriaca di allora.

Infine risentiamo la struggente “Ma mi“. di Giorgio Strehler, che parla di ben altri “quaranta dì, quaranta nott” rispetto al nostro restare chiusi in casa.

Volete sentirli? Questi canti si possono ascoltare su YouTube.

Mettiamocela tutta, verrà la primavera!

A presto…

La lunga notte del Castello sotto le dominazioni straniere

Le porte del Castello, che si aprono a tradimento alle truppe francesi, spalancano la strada ad un’epoca, per Milano, di dominazioni che durerà circa 350 anni.

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Le sale che avevano visto lo sfarzo e lo splendore della vita di Corte ai tempi del Moro, diventano stalle, i tesori vengono depredati, il Castello diventa il ventre del potere che pullula di soldati nemici. Così un cronista dell’epoca, Marin Sanudo, scriveva: “in Castello esser gran sporzizie;…francesi pissano in le camere, cachano in corte e in salla“.

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Il Castello, che si apriva alla città, ora è rivolto contro di essa, per controllarla e per difendersi, anzichè difendere Milano.

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il Castello nel XVI secolo

Del breve dominio francese abbiamo due ricordi: la distruzione della Torre del Filarete ed il monumento funebre di Gaston de Foix, nipote del Re e comandante del Castello, così bello e lontano nella sua compostezza ultraterrena.

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Misteriose e intriganti sono le cause che hanno provocato il crollo della Torre, diventata, durante l’occupazione francese, armeria e deposito di esplosivi. Errore umano di un soldato, che ne causò l’esplosione, o un fulmine che la colpì durante un violento temporale nella notte di fine giugno 1521?

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“Era una notte buia e tempestosa” , direbbe Snoopy…

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Alcune voci dell’epoca, al di là delle versioni ufficiali, parlarono di una statua d’angelo decapitata e della vendetta di un artigliere svizzero, avvenuta quella notte.

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mercenario svizzero

La versione popolare sosteneva che il governatore francese di Milano, da qualche tempo non riuscisse a dormire per il cigolio che faceva la statua di San Michele in cima al campanile di San Gottardo.

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san gottardo angelo

Qualcuno gli suggerì di farla saltare, come per errore, con un colpo di bombarda.

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Fu incaricato, in cambio della libertà, un mercenario svizzero al soldo degli Sforza, detto “il Bombarda”, che era stato catturato e fatto prigioniero insieme alla sua donna. Il Bombarda sparò e San Michele fu decapitato.

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Mentre si trovava ancora sulla torre dalla quale aveva sparato, il mercenario vide, nella piazza d’Armi, la sua donna subire violenze dalla soldataglia francese.

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da “La ciociara”

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muro delle bambole a Porta Ticinese – contro la violenza sulle donne

Senza esitare, mirò di nuovo e colpì la Torre del Filarete, piena di esplosivo. Il boato fu tremendo, la Torre distrutta e 300 soldati morirono nell’esplosione. Si dice che ancora oggi ci siano 300 spiriti che vagano senza pace in piazza d’Armi, nel giorno dei Morti.

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Dei due amanti non si seppe più nulla.

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Il Castello, mutilato nella sua torre centrale, continuò la sua vita da caserma anche sotto la dominazione spagnola, ospitando fino a 3.000 soldati.

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Al suo interno: due chiese, osterie, botteghe, stalle, pollai, alloggi, cucine, mense, persino un ospedale per gli appestati (che oggi ospita la Pietà Rondanini di Michelangelo) quasi una cittadella del potere spagnolo a carico delle tasse dei milanesi.

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Pietà Rondanini – antico Ospedale spagnolo

All’esterno 3 chilometri di bastioni avevano circondato la Ghirlanda, antica fascia protettiva del Castello.

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Sono anni bui per il Castello e per Milano, con rivolte popolari e gravi pestilenze, descritte anche ne “I promessi sposi”.

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la rivolta del pane

Nel Castello è conservata ancora la lapide che ricorda la tremenda fine di Gian Giacomo Mora, presunto “untore”, torturato e ucciso con l’accusa di aver diffuso la peste.

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Quando il Ducato di Milano venne ceduto dalla Spagna agli Asburgo d’Austria, per il Castello non cambiò molto e continuò ad essere caserma e stalla per la guarnigione austriaca, sotto lo sguardo della statua di San Giovanni Nepomuceno, suo protettore, che ancora oggi, campeggia nella piazza d’Armi.

statua san giovanni nepomuceno

La storia incontra sempre le pietre del Castello: la meteora napoleonica aveva fatto grandi progetti per Milano, tanto da prevedere anche un’impegnativa trasformazione della zona intorno al Castello. che si sarebbe trovato al centro di una grande piazza circolare, della quale ancora oggi rimane Foro Buonaparte.

Castello Napoleone

come doveva diventare il Castello

castello foro bonaparte

progetto napoleonico

Foro Bonaparte

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attuale Foro Buonaparte

Mentre con una mano venivano rubate e trasportate in Francia opere d’arte, con l’altra furono costruiti edifici come l’Arco della Pace e l’Arena.

MILANO 20 Ott 2012 - ARCO DELLA PACE PRIMA DELLA CANCELLATA PROTETTIVA stella p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate - MILANO 2012-10-20 ARCO DELLA PACE PRIMA DELLA CANCELLATA PROTETTIVA ARCO DELLA PACE PRIMA DELLA CANCELLATA PROTETTIVA - fotografo: Gianluca Albertari / Fotogramma / Fotogramma arena

Una curiosità: il primo tricolore bianco, rosso e verde nacque a Milano, come stendardo militare della Legione Lombarda Cacciatori a Cavallo, un corpo di volontari a fianco di Napoleone, ed è conservato al Museo del Risorgimento di Milano.

legione lomb. cacciatori

Caduto Napoleone, con la Restaurazione ed il ritorno degli Austriaci, il Castello riprese ad essere fortezza e prigione. Le sue segrete si riempirono, durante le Cinque Giornate, di prigionieri, i cui corpi furono trovati solo alla fine della dominazione austriaca.

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Con l’avvento del Regno d’Italia si pensò di demolire il Castello, ormai in grave stato di degrado, che era stato per troppi anni fortezza nemica dentro la città e simbolo dell’oppressione.

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il degrado del Castello

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a fine Ottocento

L’area occupata dal Castello stava per diventare preda ambita per l’espansione e la speculazione edilizia. Per l’antica dimora dei Duchi sembrava arrivata la fine, ma il Biscione, simbolo di Milano, aveva pronto l’uomo che avrebbe fatto rinascere il Castello.

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continua…