Hemingway racconta la sua Milano
Queste righe sulla nostra città non le abbiamo scritte noi. Abbiamo raccolto alcune frasi da “Addio alle armi” e dalle lettere che Hemingway scrisse ad amici e familiari sulla sua esperienza milanese, quando, neanche ventenne, giunse a Milano in convalescenza dopo essere stato ferito sul fronte del Piave, durante la prima guerra mondiale. Alcuni riferimenti a questo periodo milanese, durato poco più di tre mesi, si trovano nella parte già pubblicata di questo articolo.
La Milano raccontata dallo scrittore americano è piuttosto circoscritta; il suo ospedale si trovava in via Armorari, a due passi dal Duomo. Ernest aveva le stampelle e il soggiorno durò una sola estate. Sono però, secondo noi, frammenti interessanti per cogliere alcuni aspetti della Milano di un secolo fa e, forse, riflettere su quella che è diventata oggi.
Ed ora la parola a Hemingway:
“A Milano mi condussero all’Ospedale Americano in autoambulanza… all’arrivo vidi la piazza di un mercato e una bottiglieria aperta…”

“Mi portarono in una stanza… quando mi svegliai dalle persiane entrava il sole, guardai fuori… c’erano i tetti e le tegole delle case… mandai a chiamare il portiere e gli dissi di comprarmi una bottiglia di Cinzano e i giornali.”
“Dalla veranda dell’ospedale riesco a vedere la sommità della cattedrale del Duomo. È molto bella. Come se contenesse una grande foresta“
“Sì, Ag [Catherine in “Addio alle armi”] è una infermiera. Di più non posso dire, sono come instupidito. Quando dico che sono innamorato di lei non significa che ho una cotta. Significa che la amo. (…) Mi sono sempre chiesto come sarebbe incontrare la ragazza che amerai davvero per sempre e adesso lo so. Per di più anche lei mi ama, il che è di per sé abbastanza un miracolo…”
“Poi cominciai le cure all’Ospedale Maggiore. Ci andavo di pomeriggio e poi mi fermavo al caffè a bere e a leggere i giornali…” “La gamba andava bene”
“Quando potei uscire con le stampelle andammo in carrozza al Parco...”
“Un giorno arrivammo al Mercato e poi ai portici e a piazza del Duomo, piena di tram; al di là dei binari sorgeva bianca e umida nella nebbia la Cattedrale, nella piazza la nebbia era densa; la Cattedrale pareva enorme sotto la facciata; ed era umida veramente la sua pietra.“.
“Ci piaceva star fuori in Galleria, i camerieri andavano e venivano e ogni tavolo aveva la sua lampada con un piccolo paralume.”… “C’era gente che passeggiava… Guardavamo la gente e la grande Galleria nel crepuscolo…“
“Cenavamo al Grande Italia, seduti ai tavolini all’aperto nella Galleria Vittorio Emanuele II . George, il bravo capocameriere del locale, ci riservava un tavolo. Bevevamo Capri bianco secco ghiacciato in un secchiello, ma trovammo altri vini: Freisa, Barbera e i bianchi dolci.“
“Dopo cena passeggiavamo in Galleria davanti agli altri ristoranti e ai negozi con le saracinesche di ferro abbassate… Poi salivamo in carrozza aperta… davanti al Duomo... così passò l’estate… Non ricordo molto di quei giorni”
“Nella strada della Scala... volevo comprare qualcosa al Cova da portare a Catherine… Comprai una scatola di cioccolatini e, mentre la ragazza li incartava, andai al bar e bevvi un Martini…
“Ne bevvi fino a 18 in una sola volta…” “Arrivati in fondo alla piazza ci voltammo a guardare il Duomo, era bellissimo nella nebbia.” [era piena estate, forse la vista era annebbiata dai tanti Martini?]
“Non perdere tempo con chiese, palazzi o piazze. Se vuoi conoscere una cultura passa il tempo nei suoi bar”.” Non andavo in giro per la città… L’unica cosa che desideravo fare era vedere Catherine… Il resto del tempo mi accontentavo di ucciderlo.”
“Noi quattro andammo a San Siro in una carrozza scoperta. Era una bella giornata e attraversammo il Parco e seguimmo il tranvai e poi fuori dalla città dove la strada era polverosa. C’erano ville con le cancellate di ferro e grandi giardini traboccanti di vegetazione, e fossi con l’acqua corrente e orti verdi con la polvere sulle foglie. Attraverso la pianura si vedevano le fattorie e le fertili tenute verdi coi loro canali di irrigazione e le montagne a nord.“
“Molte carrozze entravano nell’ippodromo e gli inservienti al cancello ci lasciarono entrare senza biglietto perché eravamo in uniforme. Scendemmo dalla carrozza e attraversammo a piedi il prato e poi la soffice pista del percorso verso il recinto del peso… Il pesage era pieno di gente e facevano passeggiare i cavalli in cerchio sotto gli alberi dietro alla tribuna principale. Vedemmo gente che conoscevamo e osservammo i cavalli. Andammo verso la tribuna centrale a guardare la corsa.“.
“Voltammo in una strada laterale stretta… Molta gente passava nella nebbia… Camminammo finchè la strada sboccò in una più larga lungo un canale…”
“In settembre ci furono le prime notti fresche, poi rinfrescarono le giornate. Le foglie sugli alberi del parco incominciarono a cambiare colore e ci accorgemmo che l’estate era finita…” “Dovevo tornare al fronte…”
Ma nella realtà si ammala di itterizia e torna in America. Anche la storia d’amore con Ag. finisce e il ricordo di lei “a forza di sbronze e di donne adesso non c’è più” [e ancora] “ora sono un uomo libero! Mio Dio, amico, hai mai pensato per davvero che stessi per sposarmi e mettere su casa?“.
Il periodo che Hemingway trascorse a Milano fu molto breve, ma intenso e importante, tanto che scriverà “Milano è la città più moderna e vivace d’Europa. (…)” e ad un amico: “ho l’impressione che qui da noi si viva a metà. Gli italiani, invece, lo fanno fino in fondo”.
