Sant’Antonino in Segnàno, un piccolo gioiello di periferia

La chiesetta di Sant’Antonino in Segnàno, periferia Nord-Est di Milano, tra Greco e Bicocca, come un albero secolare testardo ha affondato le sue radici intorno all’Anno Mille nei campi di allora, ed è giunta fino a noi, un po’ sconosciuta e trascurata, sovrastata da condomini all’angolo tra le vie Comune Antico e Roberto Cozzi.

 

I primi documenti ufficiali che la riguardano risalgono alla fine dell’Anno Mille, quando venne citata tra i beni del monastero di San Simpliciano, una delle quattro basiliche volute da Sant’Ambrogio fuori le mura cittadine.

 

Sant’Antonino fu fondata dai monaci cluniacensi, come anche Santa Maria di Calvenzano vicino a Vizzolo Predabissi, lungo la Strada delle Abbazie.

 

La nostra chiesetta venne poi ricostruita nel 1517, probabilmente sullo stesso luogo e con le medesime dimensioni, dai monaci cassinensi, come è indicato nella piccola targa sulla facciata. Ha un tetto a capanna e, tutta intonacata di grigio, ha un aspetto piuttosto modesto. Si scorgono ancora sulla facciata confuse tracce di affreschi e una piccola greca in gesso rosso che vuole riprendere lo stile romanico lombardo.

 

Un piccolo campanile a vela con una campanella datata 1615, si stacca come un ramo in cerca di spazio sul retro della chiesetta.

 

Entriamo dall’unico portoncino di legno: subito notiamo il contrasto tra la navata riccamente affrescata e l’abside semicircolare (aggiunta nel 1965), tutta dipinta di bianco. Due affreschi, rimossi a strappo dalla navata, interrompono il suo candore: sono Sant’Antonino, vescovo milanese del VII secolo, e il Beato Ludovico Barbo, che scrisse la Regola della congregazione cassinense. Al centro un Crocifisso ligneo della Val Gardena. Un arcone, che un tempo era la parete di fondo della chiesetta, suddivide ora visivamente abside e navata. Due angeli sollevano drappi rossi e mettono in risalto il piccolo altare in legno e cristallo.

 

L’idea dell’albero torna dunque in questo bellissimo altare ricavato da un tronco di ulivo dallo scultore contemporaneo Carlo Natale Basilico, autore anche del leggio ligneo. Nel basamento dell’altare è rappresentata la Creazione di Adamo ed Eva, con le mani protese verso quelle creatrici divine. Una curiosità: le mani di Dio sono una maschile e una femminile.

 

Dall’altare guardiamo la navata, sormontata da un soffitto a cassettoni dipinto. Sopra la porta d’ingresso si trova lo stemma della basilica di San Simpliciano, che era la “proprietaria” di questa chiesetta.

 

Sulle pareti lunghe notiamo due grandi affreschi secenteschi, purtroppo piuttosto deteriorati, attribuiti al Fiammenghino; in alto corre un lungo “bordo” sul quale sono dipinti, come in un racconto, i simboli della Passione (il gallo, l’orecchio mozzato, il Calice, la Tunica con i dadi, il velo della Veronica, dove è raffigurato un realistico volto di Cristo…).

 

Sulla parete di destra, guardando verso l’altare, è affrescata una “Contemplazione della Vergine col Bambino” da parte di alcuni Santi Vescovi, le cui reliquie furono traslate nel 1582 da San Carlo Borromeo nella basilica di San Simpliciano. Tra questi spicca la figura di Sant’Antonino, che reca la palma del martirio per la sua lotta contro l’eresia ariana al tempo dei Longobardi.

 

Se guardiamo con attenzione, al centro del dipinto, sotto la nuvola, viene ripreso un particolare della basilica di corso Garibaldi, che sottolinea ancora una volta il legame tra le due chiese.

 

Sulla parete di fronte alla “Contemplazione”, di spirito prettamente religioso, si trova, invece, un dipinto che celebra anche valori civili come la lotta per la libertà. Viene infatti raffigurata la Battaglia di Legnano combattuta nel 1176 tra la Lega Lombarda e il Barbarossa. Una piccola curiosità: nel ” Canto degli Italiani” si trovano questi versi “Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano“, unica città, oltre a Roma, citata come esempio della lotta per l’indipendenza nel nostro Inno nazionale.

 

Si è molto discusso se questo affresco rappresenti invece la battaglia della Bicocca degli Arcimboldi, combattuta qui vicino nel 1522, tra le truppe imperiali di Carlo V e quelle francesi di Francesco II. Noi pensiamo di no sia per l’assoluta mancanza nel dipinto di armi da fuoco, sia per la presenza del Carroccio, il leggendario carro, simbolo della autonomia comunale, sormontato dal gonfalone milanese e da un Crocifisso.

 

Molto interessante, sulla destra dell’affresco, in basso, la figura di un cavaliere che viene disarcionato dal proprio cavallo morente, come la leggenda narra sia accaduto al Barbarossa durante la battaglia.

 

Infine c’è un altro particolare molto intrigante: tre colombe bianche volano intorno al Carroccio. Secondo la tradizione si sarebbero levate in volo dal sepolcro dei tre Martiri dell’Anaunia di San Simpliciano, proprio il 29 maggio, giorno della battaglia e anche giorno dedicato ai tre Santi Martiri. Lo racconta Galvano Fiamma, cronista milanese del Trecento, 150 anni dopo la battaglia…

 

La lunga e dettagliata descrizione di questa chiesetta, pressochè sconosciuta, è un invito a considerare come Milano sia bella e interessante anche fuori dal centro e come ci sarebbe veramente tanto da vedere per conoscerne l’identità storica e culturale. Attualmente Sant’Antonino è quasi sempre chiusa. Quando si potrà visitare liberamente questo piccolo patrimonio della nostra città e vederlo restaurato? Speriamo di aver dato un piccolo contributo per portare l’attenzione di più persone su questo piccolo gioiello di periferia.

A presto…

Piccolo itinerario del Tempo: il primo Orologio di Milano

Mentre contiamo le ore che mancano alle vacanze, iniziamo un insolito, piccolo itinerario attraverso gli orologi pubblici di Milano che hanno scandito il tempo e il ritmo della nostra città.

Qual è stato il primo orologio pubblico? Il primato dovrebbe appartenere a quello posto sul campanile di Sant’Eustorgio nel 1309, collocato sotto la Stella dei Magi, antichi viaggiatori del tempo. Sembra, però, fosse muto perchè i meccanismi erano così fragili che avrebbero potuto deteriorarsi a causa delle vibrazioni provocate dal rintocco delle ore.

 

Galvano Fiamma, il curiosissimo cronista milanese del Trecento, ci informa che i nostri concittadini di allora sentirono per la prima volta battere le ore, nel 1335, dal campanile di San Gottardo in Corte, senza però poter vedere l’orologio dal quale provenivano i rintocchi.

 

Infatti non c’era il quadrante e il meccanismo si limitava a battere le ore. Questo “orologio” fu così importante per la nostra città che ancora oggi la strada dove si trova si chiama Via delle Ore.

 

Dopo quello muto e quello invisibile gli orologi pubblici divennero via via sempre più numerosi e fecero la loro comparsa su altri campanili di chiese e abbazie. Il ritmo della Natura stava cedendo il posto a quello delle attività umane. Bellissimo l’antico quadrante in cotto dell’abbazia di Chiaravalle.

 

Ancora oggi possiamo guardare i bei quadranti su diversi campanili, magari scanditi dai rintocchi delle campane. Sappiamo ancora ascoltarle o preferiamo il segnale di un cellulare?

 

Una curiosità: la chiesa di Sant’Alessandro di orologi ne ha ben due, uno però è solo dipinto.

 

E il nostro Duomo? Non ha un campanile sul quale poter porre un orologio, ma guglie arditissime, capolavori senza tempo.

 

Dietro la sua abside, però, il palazzo della Veneranda Fabbrica ha un orologio bellissimo, con le statue del Giorno e della Notte.

 

Che dire poi della meridiana che si trova all’interno della nostra Cattedrale? Vedremo questa e altri orologi in un prossimo, piccolo itinerario per vedere, attraverso diverse curiosità, come la misurazione del tempo sia cambiata durante i secoli anche nella nostra città.

A presto

Una moderna favola medievale: il drago dei Giardini Pubblici Montanelli

Mentre, chiusi in casa per la pandemia, cercavamo storie e leggende sul Biscione, ci siamo imbattuti in due racconti che narrano di un drago che sarebbe vissuto nel IV secolo a Porta Venezia, dove oggi ci sono i Giardini Pubblici.

Vogliamo condividerli: sono storie a lieto fine, come speriamo siano quelle di tutti noi dell’Era Covid. Gli autori sono il frate Domenicano Galvano Fiamma (1283-1344) e il superiore generale dei Gesuiti, Paolo Morigia (1525-1604), che raccontano, a secoli di distanza, la vicenda di questo drago e del valoroso cavaliere che lo sconfisse.

Si narra che, poco dopo la morte di Sant’Ambrogio, i milanesi che vivevano nei pressi della Basilica dei Profeti (poi diventata San Dionigi, della quale parleremo tra poco) erano terrorizzati dalla presenza di una mostruosa creatura che viveva in una caverna.

Questo orrendo essere col suo pestilenziale e mortifero respiro infettava i dintorni. C’era dunque un focolaio dovuto alla bestia.

Tutta la zona era “rossa”; nessuno usciva, migliaia di persone morivano e, via via, anche nella città stava arrivando il contagio. Se qualcuno, poi, si avventurava all’aperto o cercava di attaccare il mostro, veniva ucciso e divorato.

Che fare? Un antenato della nobile famiglia Visconti, Uberto, armato non tanto di ferro, quanto di “fortezza d’animo, destrezza e di ingegno, mosso dal suo naturale valore si espose a pericolo della vita per liberare la città” (P. Morigia).

Dopo due giorni di lotta, Uberto riuscì a uccidere il mostro, “prendendolo per la barba e colpendolo con una scure”: il nemico era sconfitto e il “morbo” finito. Da allora il terribile drago divenne l’emblema dei Visconti.

Ieri il drago, oggi il Covid… Certe storie non furono mai, ma in fondo accadono sempre.

Quattro parole sulla Basilica di San Dionigi

Questa è un’altra leggenda sull’origine del Biscione, ma contiene anche alcuni tasselli per ricostruire un angolo della nostra città. La storia raccontata si svolge, infatti, a Porta Venezia, nei dintorni della chiesa di San Dionigi, oggi scomparsa.

Era una delle quattro basiliche volute da Sant’Ambrogio fuori le mura della città.

Inizialmente era stata dedicata ai Santi Profeti, poi, come le altre tre basiliche, aveva assunto il nome di un Santo, in questo caso del Vescovo di Milano, Dionigi, morto in esilio in Cappadocia, il cui corpo, però, era stato fatto tornare e tumulare in questa chiesa.

Basilica dei Martiri – Sant’Ambrogio

Basilica degli Apostoli – San Nazaro

Basilica delle Vergini – San Simpliciano

Basilica dei Profeti – San Dionigi (scomparsa)

Questa zona, più o meno dove oggi sorge il Planetario, era stato da sempre un luogo sacro.

La leggenda racconta che il 13 marzo del 51 d.C. San Barnaba avesse trovato qui la pietra rotonda venerata dai Celti (che oggi vediamo ancora presso la chiesa di Santa Maria del Paradiso a Porta Vigentina) ed avesse iniziato l’evangelizzazione di Milano.

La pietra venne custodita nella Basilica di San Dionigi fino a quando la chiesa non fu demolita. Già nel 1500, devastata dai lanzichenecchi, fu fatta ricostruire dal governatore di Milano (Antonio de Leyva, antenato della Monaca di Monza), spostandola entro le nuova mura spagnole, i Bastioni di Porta Venezia.

Infine la basilica venne demolita definitivamente quando, verso la fine del 1700, gli austriaci vollero creare uno spazio verde all’interno della città, i Giardini Pubblici.

Attualmente sono in corso scavi, dove è possibile, per cercare i resti di questa antica basilica, così importante per conoscere il nostro passato.

Quando faremo di nuovo quattropassi ai Giardini Pubblici, pensiamo su quanti secoli di storia stiamo camminando.

A presto…