Alla BIT alcuni itinerari di Morimondo

La Lombardia riscopre il turismo o il turismo riscopre la Lombardia? Ce lo siamo chiesti alla 44esima edizione della BIT di quest’anno. che ha avuto luogo agli inizi di febbraio.

 

In questa manifestazione è stato presentato il brand “Lombardia Style” per valorizzare il turismo e le eccellenze della nostra regione.

 

Se Milano ha fatto da traino prima con l’Expo, poi con le sue varie “settimane”, i “fuorisalone” e le sue offerte di vita contemporanea, ora si parla di riscoprire altre zone lombarde ricche di fascino ambientale e culturale, non meno attrattive (laghi, montagne, città d’arte, borghi, paesaggi, storia…). Ecco come l’artista siciliano Domenico Pellegrino ha rappresentato alla BIT la nostra regione.

 

La nostra è la regione italiana con il maggior numero di siti Patrimonio UNESCO, considerati patrimoni dell’Umanità, mica poco!

 

Inoltre alle visite per ammirare paesaggi e luoghi si possono aggiungere pause enogastronomiche per degustare piatti e specialità regionali. La cucina lombarda è ricca di tanti prodotti e sapori; come poi dimenticare piatti iconici come il risotto, la cotoletta e il panettone?

 

La nostra regione offre, per così dire, tanti “turismi” da quelli che appagano il nostro bisogno di natura e di cultura a quelli più lenti e intimi di cui ha bisogno il nostro spirito. In questa direzione vanno i diversi “cammini” come la Strada delle Abbazie, di cui abbiamo tanto parlato.

 

Lungo questa strada una meta importante è il borgo di Morimondo, situato nel Parco Regionale del Ticino, a circa 30 chilometri da Milano, considerato da Lombardia Style tra i 25 più belli della nostra regione per gli aspetti ambientali, storici, artistici e naturalistici.

 

Oltre all’Abbazia, molte sono le attrazioni di Morimondo. Ci sono antiche porte e costruzioni, opere d’arte moderna all’aperto, il Museo di Arte Sacra (che contiene, tra l’altro, bellissimi presepi provenienti da Santa Maria delle Grazie e ambientati a Milano o nelle nostre campagne); infine non dimentichiamo l’ottima cucina di alcuni ristoranti locali.

 

Morimondo, poco distante da importanti strade, cammini e vie d’acqua, è stato, da sempre, non solo un punto di arrivo, ma anche di passaggio e di partenza. Si trovava, infatti, vicino all’antica via romana “Mediolanum – Ticinum (l’odierna Pavia)” e alla “Via del Sale”, che dall’Adriatico arrivava fino a Milano risalendo con barconi il Po, il Ticino e i Navigli fino alla Darsena.

 

Inoltre non era lontano dalla strada che, passando per Vigevano e Mortara, conduceva al “Cammino di Santiago di Compostela” e anche dalla via “Francisca del Lucomagno”, che collegava la regione svizzera del lago di Costanza con la “Via Francigena”, percorsa da viandanti e pellegrini diretti a Roma.

 

La posizione tra Milano e Pavia sempre in lotta fra loro, in epoca comunale, non fu certo favorevole a Morimondo e alla sua pace. Con San Carlo Borromeo passò, infine, sotto lOspedale Maggiore di Milano e, tra mille difficoltà e vicissitudini, ancora oggi molti terreni appartengono alla Fondazione Patrimonio Ca’ Granda.

Questa Fondazione, che ha ricevuto il riconoscimento UNESCO “Man and Biosphere” per la tutela ambientale, svolge diverse attività molto belle e interessanti nell’Oasi Ca’Granda, tra il Ticino e l’Adda.

https://oasicagranda,it

 

Da Morimondo, seguendo i suggerimenti contenuti in un pieghevole distribuito negli Uffici Turistici del borgo, possiamo fare una bella passeggiata tra i campi, a piedi o in bicicletta (che si può anche affittare in loco) lungo il “Sentiero delle Cinque Chiese”.

 

https://ente.parcoticino.it/eventi/anello-dellabbazia-o-delle-cinque-chiese/

Partendo dal piazzale dell’Abbazia, si attraversa un paesaggio agricolo che sembra lontano anni luce da Milano.

 

Percorrendo una ciclabile si incontrano campi, marcite, cascine e piccole, semplici chiese che avrebbero bisogno di molte cure; forse, però, le tante rughe del tempo sono parte del loro loro fascino.

 

Infine un’ultima curiosità: questo borgo fa parte di un itinerario veramente fuori dal “comune”. Il Parco del Ticino è attraversato dal Sentiero Europeo E1 che unisce, nientepopodimeno, Capo Nord in Norvegia con la Sicilia.

 

Magari non arriveremo ai fiordi, ma un’escursione in auto, a piedi o in bicicletta fino a Morimondo è da non perdere!

 

A presto…

La Strada delle Abbazie: settima tappa, Morimondo

Queste giornate di autunno che si accenderanno per i colori del foliage, ci invitano a qualche gita fuoriporta, magari per l’ultima tappa della “Strada delle Abbazie“: Morimondo.

 

“…di tutte, quest’ultima è quella che ha conservato la maggior magia agreste, in quanto il suo collocamento nel Parco del Ticino l’ha salvata dalla cementificazione… Questo è un luogo mistico, poetico e magico nel contempo…” (P. Daverio: La buona strada).

 

Oltrepassiamo, dunque, l’antica Porta del Pellegrino per raggiungere l’Abbazia di Morimondo (dedicata, come il Duomo di Milano, a Santa Maria Nascente) con il suo monastero.

 

Venne fondata nella prima metà del 1100 da alcuni monaci cistercensi giunti dal monastero francese di Morimond, del quale restano oggi solo alcune rovine.

 

Interessante è il significato di questo nome. Generalmente lo si fa riferire a “morire al mondo”, cioè “risorgere” per iniziare una nuova vita. C’è chi pensa, però, che voglia dire “rilievo tra le paludi” (dal francese moire mont) perchè i cistercensi erano soliti, per fondare una loro abbazia, scegliere un luogo circondato da terreni da bonificare. Morimondo si trova, in effetti, su un piccolo rilievo tanto che la chiesa è più in alto dei terreni circostanti.

 

L’abbazia è piuttosto grande (metri 66 per 28 circa) ed è stata realizzata coi tipici mattoni rossi lombardi che furono, in parte, forniti, nel corso del tempo, anche dalla secolare Fornace Curti ancora attiva nella nostra città.

 

La facciata, che risale alla fine del Duecento, è piuttosto austera, secondo lo stile cistercense privo di orpelli e decorazioni. Ci sono volutamente alcune imperfezioni (bifore diverse ed asimmetriche, rosone non centrato…) in quanto, per quei monaci, la perfezione poteva appartenere solo a Dio.

 

Dall’esterno possiamo vedere come anche a Morimondo ci sia, al posto del campanile, la torre nolare, tipica delle chiese cistercensi.

 

Anche l’interno, a tre navate, è severo e richiama la semplicità dei monaci secondo quanto voleva San Bernardo: “…non si deve provare più gusto a leggere i marmi che i codici,… nè occupare l’intera giornata ammirando, piuttosto che meditando la Legge di Dio”.

 

Può forse sembrare strano che la semplicità di queste abbazie faccia sentire al visitatore, o al fedele, che si trova di fronte ad una bellezza profondamente diversa, fatta di vuoti e di silenzi delle immagini, che porta al raccoglimento e alla meditazione. Affreschi, immagini, quadri e statue si possono contare sulle dita di una mano.

 

Una bella acquasantiera in pietra di saltrio ci accoglie all’ingresso. In origine si trovava nel chiostro e serviva ai monaci come lavabo per le mani prima di entrare in chiesa o nel refettorio.

 

C’era anche, sopra l’acquasantiera, una bella Madonnina che è stata, ahimè, rubata, ma non dimenticata.

 

Proseguendo verso il transetto guardiamo, dietro l’altare maggiore, il bel coro cinquecentesco in legno di noce, con incisi simboli e immagini sacre.

 

Anche in questa chiesa, di fianco all’altare, c’è una scala che porta al dormitorio dei monaci.

 

Sulla parete accanto ad essa, ecco la Madonna della Buonanotte, che i monaci salutavano andando a dormire. Tiene in braccio il Bambino e, accanto a loro, ci sono San Giovannino, San Bernardo e San Benedetto. L’affresco risale al 1515, realizzato tre anni dopo quello di Bernardino Luini a Chiaravalle. Da notare che l’ambiente sembra dilatarsi alle spalle della Vergine, “bucare” quasi la parete. Il Bramante aveva fatto scuola.

 

Una curiosità a cui non abbiamo saputo trovare risposta. Sempre sulla parete a destra dell’altare troviamo una antica lapide che riguarda un soldato romano della XIII Legione Gemina. Come, quando e perchè è capitata (ed è stata murata!) qui?

 

I monaci, però, non erano dediti solo al lavoro dei campi e alla preghiera, ma erano impegnati anche con lo studio e la stesura di codici miniati. Per visitare questi luoghi di lavoro, cultura e preghiera, accessibili dal chiostro, è necessario prenotare una visita guidata presso l’abbazia.

 

Morimondo non è, però, solo un punto di arrivo, ma può essere, come vedremo presto, un punto di partenza per altri itinerari…

A presto…

La Strada delle Abbazie: sesta tappa, Mirasole

Riprendiamo il nostro cammino sulla Strada delle Abbazie, luoghi di fede e di storia che hanno cambiato il volto della nostra Bassa.

Abbiamo suddiviso questo percorso a tappe, una per ogni abbazia, in modo che ciascuno, pellegrino o turista, possa percorrerlo coi tempi e mezzi che preferisce.

Immersi quasi in un tempo a due velocità tra la fretta di oggi e la pace di questi luoghi, si potrà provare meraviglia davanti a questa antica arte minore, diffusa in luoghi che conosciamo ormai diversi, e scoprire simboli e allegorie millenarie in grado di far rivivere, anche oggi, emozioni sopite.

L’Abbazia di Mirasole

La tappa di oggi è l’Abbazia di Mirasole, nel Comune di Opera, a pochi passi da Milano, unico esempio rimasto di grangia fortificata lombarda, protetta all’ingresso da una piccola torre.

 

Ottocento anni di storia

Venne fondata tra il XII e il XIII secolo dall’Ordine degli Umiliati che, con i Cistercensi e i Cluniacensi, costruirono una serie di abbazie a sud di Milano, poco distanti, anche a piedi, le une dalle altre, che formavano quasi una corona nei terreni bonificati dal lavoro dei Monaci.

 

Nel corso dei secoli Mirasole ha incontrato tempeste e rinascite. Da grangia ricchissima (fornì persino gratuitamente legname alla Veneranda Fabbrica del Duomo), andò incontro ad una lenta decadenza quando anche gli Umiliati dovettero fare i conti con le crisi provocate da carestie, epidemie e guerre 

 

I terziari (gli Umiliati furono i primi ad avere laici nel proprio ordine) e i salariati diminuivano sempre più e anche Mirasole fu costretta a dare in affitto i propri terreni a ricchi proprietari terrieri che risiedevano altrove. Così i Trivulzio, nel 1427, giunsero persino ad occupare le terre dell’abbazia con il proprio bestiame, in cambio di un affitto irrisorio. Ecco il Mausoleo della potente famiglia Trivulzio presso la basilica di San Nazaro.

 

Il colpo di grazia a Mirasole avvenne poi nel 1582 quando, a seguito del colpo di archibugio sparato contro l’Arcivescovo Carlo Borromeo da parte di alcuni Umiliati, si arrivò alla soppressione dell’Ordine.

 

Il Cardinale ottenne che tutte le rendite di Mirasole andassero al Collegio Elvetico, fondato per l’istruzione di seminaristi svizzeri, che ebbe poi sede presso il Palazzo del Senato, attualmente Archivio di Stato.

 

Terminò così la vita monastica di Mirasole e tutti gli edifici, tranne la chiesa e il chiostro, furono affittati. Il lungo viaggio di Mirasole, però, non era ancora finito. Nel 1797 Napoleone soppresse il Collegio Elvetico e donò l’Abbazia, con tutte le sue proprietà, all’Ospedale Maggiore di Milano per l’assistenza che aveva dato ai suoi soldati.

 

Era quasi un ritorno al passato da parte del destino. Infatti, nel lontano 1359, Bernabò Visconti aveva donato diverse terre di questa zona agli “ospedali” milanesi del Brolo e di Santa Caterina, “antenati” dell’Ospedale Maggiore – Ca’ Granda.

 

Attualmente Mirasole è ancora di proprietà dell’Ospedale e, ben restaurata, ospita diverse iniziative anche a carattere sociale e ricreativo, oasi anche per un attimo di pausa e di ristoro..

 

La chiesa e il chiostro

La chiesa, inizialmente più piccola, venne ricostruita nel Quattrocento e dedicata alla Vergine Assunta. La sua facciata ha un oculo centrale e, sul lato destro, si trova una formella con un Agnus Dei che richiama la lana per la cui lavorazione gli Umiliati erano celebri.

 

L’interno della chiesa era probabilmente tutto affrescato. Attualmente rimangono i dipinti dell’abside, che raccontano l’Assunzione di Maria in Cielo, accompagnata da angeli musicanti. In basso a sinistra, è dipinto l’abate committente dell’opera.

 

In una piccola cappella a destra si trova una Natività fatta realizzare pochi anni prima della soppressione dell’Ordine. In basso a sinistra appare anche qui il committente, Marco Lanetta, ultimo preposito di Mirasole. Fra coloro che assistono alla sacra scena, in nero, è dipinto il nipote, morto in giovane età, alla cui memoria la cappella era stata dedicata. Quasi un addio dipinto per sempre.

 

Nell’abbazia si poteva trovare ciò che serviva alle necessità spirituali e materiali dei monaci. Molto interessante è anche il chiostro, ricco di simbolismi ormai quasi dimenticati. Questo spazio quadrangolare (il numero quattro è ricco di simbolismi: quattro sono, ad esempio, i punti cardinali, le stagioni, le fasi lunari… ) è chiuso ai lati, ma aperto verso il cielo; non a caso la parola “chiostro” deriva dal latino “claustrum“, ovvero “chiuso”.

 

Anche nel chiostro si trovano diversi elementi simbolici: ogni lato ha sette colonne, sette è un altro numero carico di significati, tra l’altro sette erano i momenti da dedicare alla preghiera secondo la regola di San Benedetto “sette volte al giorno Ti ho lodato”.

 

 

Le colonne sono poste sopra un basamento in muratura che sembra indicasse la pazienza che i monaci dovevano esercitare.

 

Ai lati del giardino centrale ci sono quattro alberi: un fico, un ulivo, una palma e un melograno, carichi di significati che richiamano la passione di Cristo.

 

Diamo anche uno sguardo alla formella che rappresenta due religiosi, un uomo e una donna, di uguali dimensioni. Forse questo indicava il loro uguale valore?

 

Infine soffermiamoci sul simbolo di Mirasole, scolpito sui capitelli angolari dei pilastri del chiostro; purtroppo oggi ne restano solo due. Rappresentano il Sole, simbolo di Cristo, e la Luna, dal volto umano, che viene identificata coma la Chiesa, che vive della luce riflessa di Dio. Ci ha colpito come, accanto al viso della Luna, ci sia una sorta di mezzaluna: in uno dei capitelli si trova a fianco del viso, quasi uno spicchio di Luna crescente; nell’altro è invece sotto il volto.

 

La falce di Luna è un simbolo antichissimo legato a divinità femminili (Diana, Artemide, Astarte, Istar…) e anche la Madonna ha, talvolta, questo simbolo ai suoi piedi.

 

 

Intrigante, vero? L’Abbazia di Mirasole merita senz’altro una visita speciale…

A presto…

La Strada delle Abbazie: quinta tappa, Calvenzano

Questa Abbazia, poco lontano dall’ospedale di Vizzolo Predabissi, è un “dono” di Italia Nostra e del Rotary Club che ne hanno fermamente voluto – e realizzato – il suo ritorno al bene culturale comune.

 

Abbiamo ritrovato questo vecchio articolo del Corriere della Sera (1972) in cui si parlava del gravissimo stato di degrado di Santa Maria di Calvenzano. Lo proponiamo come un “techetechete” e un bell’esempio di recupero architettonico da parte di privati.

 

Oggi l’abbazia è stata ben restaurata e fa memoria di antiche storie. Si trova lungo la strada Pandina (forse di origine romana?) che venne fatta costruire da Bernabò Visconti per collegare con un rettilineo i suoi castelli di Melegnano e Pandino e per compiere quelle scorribande di “caccia”, che lo fecero ricordare come una sorta di “padre” dell’Oltrepò (infatti un vecchio detto affermava “di qua, di là dal Po, son tutti figli di Bernabò”).

 

 

La storia ci racconta anche che in questa zona, in agro Calventiano, sorgeva una cella memoriae che divenne forse la chiesa presso il cui battistero fu incarcerato, nella prima metà del 500 d.C., Severino Boezio. Accusato di alto tradimento da Teodorico, Re degli Ostrogoti, durante la prigionia trovò conforto scrivendo il ponderoso tomo “De Consolatione Philosophiae”.

 

Sulla fiancata della attuale chiesa (che in realtà a quel tempo non esisteva ancora) una lapide riporta che qui avvenne l’esecuzione del filosofo.

 

Questa ingiusta sentenza di morte, secondo varie leggende, ricadde su Teodorico stesso. Una di queste, infatti, racconta che il Re morì durante un banchetto atterrito dagli occhi sporgenti di un pesce che gli ricordavano quelli delle sue vittime; altre leggende narrano che venne rapito da un cavallo nero che attraversò tutta l’Italia in un galoppo sfrenato e, dopo aver saltato con un sol balzo lo stretto di Messina, scaraventò il Re nel cratere dell’Etna, direttamente all’Inferno.

 

Vecchie storie prive di fondamento? Certamente, come quella di una leggenda pavese che invita a non vagabondare in questa zona dove si aggirerebbe ancora oggi il fantasma senza testa di Severino Boezio. Noi, comunque, vi abbiamo avvertito…

 

Queste le fosche leggende che aleggiano intorno all’abbazia di Calvenzano. La Storia riporta che il terreno dove sorge la chiesa venne donato alla fine dell’Anno Mille (1090, o forse, 1093) da tre ricchi possidenti di Marignano (antico nome di Melegnano) ai monaci dell’Abbazia di Cluny, un ordine di origine francese fondato da San Bernone.

 

Questi monaci erano dediti alla preghiera, allo studio e al silenzio. Le abbazie cluniacensi erano collegate tra loro in Priorati e questo consentiva un più ampio scambio culturale. I monaci non si dedicavano al lavoro dei campi, ma alla studio e alla trascrizione di testi antichi, anche profani o di altre religioni. A loro si deve la traduzione in latino, per confutarlo, del Corano. Questo non ci ricorda forse l’ambiente del monastero dove si svolge “Il nome della rosa”?

 

Un particolare distingue subito queste abbazie da quelle cistercensi: in esse non c’è la scala che conduce direttamente dalla chiesa alle camere comuni. Infatti i cluniacensi erano monaci più “solitari” e avevano celle singole nell’adiacente monastero. Erano forse meno legati al territorio; certamente, però, attorno all’abbazia sorgevano le cascine dove lavoravano i contadini.

 

Anche questa abbazia, intitolata a Santa Maria Assunta, è fatta dei tradizionali mattoni rossi tipici del nostro territorio. Qui, però, all’interno e all’esterno, sono messi a spina di pesce con aggiunta di pietre riciclate provenienti da chissà dove.

 

All’abbazia si accede da un bel portone sopra il quale ci sono sculture di scuola comasca risalenti al XII secolo.

Si tratta di un ciclo scultoreo insolito e molto interessante con episodi dell’infanzia di Gesù.

 

La chiesa è suddivisa in tre navate, due delle quali più basse, come si vede anche dalla facciata.

 

La ricca decorazione di affreschi è andata quasi totalmente perduta. Resta il bellissimo dipinto sopra l’altare maggiore, con l’Incoronazione della Vergine, attribuita allo stesso autore che lavorò anche a Viboldone, forse il fiorentino Giusto de’ Menabuoi, allievo di Giotto. Piccola riprova dei legami fra le diverse abbazie, anche di Ordini diversi.

 

Anche Santa Maria di Calvenzano, come le altre abbazie della Strada che stiamo percorrendo, è un luogo nel quale si può “scavare” non solo per riportare alla luce intriganti storie un po’ dimenticate, ma anche per conoscere luoghi, forse inconsueti, che fanno parte della nostra cultura e che hanno contribuito a forgiare noi e il nostro territorio.

A presto…

La Strada delle Abbazie: quarta tappa, Viboldone

La “domus de Vicoboldono”, oggi Abbazia di Viboldone, è la prima che incontriamo nei nostri passidaMilano, fuori città, lungo la Strada delle Abbazie, dopo aver già visitato le “milanesi” San Pietro in Gessate, Monluè e Chiaravalle.

 

Si trova, infatti, nel Comune di San Giuliano Milanese, un tempo grandissima zona agricola, diventata poi industriale con abitazioni, capannoni, fabbrichette e centri commerciali. Il verde, però, non manca poichè fa parte del Parco Agricolo Sud Milano.

 

Questa bella abbazia fu iniziata nel 1171 e completata in circa due secoli, dall’Ordine degli Umiliati, che investivano i proventi della lavorazione della lana in “domus” e comunità agricole. In questi centri lavoravano molti laici con famiglie, che costituivano il Terzo Ordine. Dediti anche ai bisognosi e agli ammalati, erano forse una forma iniziale del volontariato che è tanto presente oggi?

 

Quando poi l’Ordine venne sciolto dopo l’attentato a San Carlo Borromeo, il complesso passò poi agli Olivetani e, in seguito, andò incontro ad un lungo periodo di declino.

 

L’abbazia, ben restaurata, merita senza dubbio una visita. Sul piazzale alla sinistra c’è la cosiddetta “Casa del Priore” che contiene una raccolta di dipinti raffiguranti antichi strumenti musicali; ma è difficile poterla visitare.

 

A destra dell’abbazia, invece, c’è l’attuale convento delle Monache Benedettine, che qui vivono e lavorano, progettato dall’architetto Luigi Caccia Dominioni.

 

Come le altre abbazie è in mattoni rossi (materiale tipico dell’architettura lombarda), ma ci sono anche elementi in marmo bianco (rosone, cornice del portone, statue) che riprendono i tradizionali colori della basilica di Sant’Ambrogio e della nostra città.

 

L’abbazia di Viboldone ha un’impronta nettamente lombarda: mattoni a vista, forma a capanna, bifore a cielo aperto, cornice con belle foglie in cotto, rosone che alleggerisce la facciata.

 

Il campanile, che si innalza sopra il tiburio come nelle abbazie cistercensi, ha una slanciata forma a cono.

 

Diamo un’occhiata al portone sopra il quale ci sono tre belle statue in marmo: al centro la Madonna col Bambino in grembo, ai lati Sant’Ambrogio, con lo staffile e San Giovanni da Meda, col bastone, una delle più importanti figure degli Umiliati.

 

Osserviamo anche l’antico portone in legno decorato con grossi chiodi. Perchè alla base c’è una “soglia” che bisogna scavalcare per entrare in chiesa? Sembra fosse un “dissuasore” per impedire l’ingresso agli animali da cortile!

 

L’interno, a tre navate, è molto suggestivo: l’arco acuto è presente ovunque.

 

Le volte a crociera e i pilastri cilindrici tipici dell’epoca mostrano una certa sobrietà.

 

Infine diamo un’occhiata agli importanti affreschi di scuola giottesca. Tra questi il bellissimo “Giudizio Universale” di Giusto dei Menabuoi, in cui compare anche un diavolaccio intento a sbranare i dannati.

 

Come sempre andiamo a caccia di qualche curiosità. Un analogo diavolo è presente negli affreschi di Giotto della Cappella degli Scrovegni di Padova…

Guardiamo anche in altri affreschi: c’è un giovane, elegante Arcangelo Michele di fianco alla Madonna; accanto appare, inginocchiato, il Priore sotto cui fu completata la chiesa.

 

Nella scena del Calvario compare uno strano soldato romano con spadino e calzature a punta che sembra uscito da un codice miniato cavalleresco.

 

Infine… aguzzate la vista! Dove si trova questo insolito uomo rannicchiato che esprime tutto il suo muto terrore?

 

Un’altra curiosità la troviamo nel tondi sotto la Crocefissione: sono Adamo ed Eva, ma è lui che ha in mano la mela.

 

Usciamo ora dell’abbazia e raggiungiamo il borgo, per la verità piuttosto triste, che si snoda lungo una via. Qui troviamo qualche cascina invecchiata male ed edifici abbandonati…

 

Tra questi, però, c’è la cosiddetta “Càa de’ paròl” che reca sotto la grondaia e a metà facciata, alcune scritte in latino. Con difficoltà abbiamo cercato qualche notizia in più, ma la ricerca è stata piuttosto deludente. Così abbiamo provato a decifrare la scritta e la data che appaiono: forse erano case per salariati agricoli costruite nel 1929?

 

Il FAI aveva proposto questo borgo rurale come Luogo del Cuore per tentarne il recupero e la rinascita. Per ora nulla …, ma diciamo con loro: “non dobbiamo rassegnarci”.

A presto…

La Strada delle Abbazie: terza tappa, Chiaravalle

Nell’itinerario “La Strada delle Abbazie”, la chiesa di Chiaravalle è la terza e ultima (dopo San Pietro in Gessate e Monluè) situata nel Comune di Milano. Raggiungere questo capolavoro dell’architettura medievale è bello e facilissimo anche in bicicletta. Infatti ci si può addentrare nel Parco della Vettabbia da via San Dionigi lasciandoci guidare poi dal bel campanile dell’abbazia.

 

Durante il percorso in via San Dionigi abbiamo fatto diversi incontri: “el Signurun”, che benedice chi entra o lascia Milano, la chiesetta di Nosedo, dove si rifugiarono i milanesi dopo la distruzione di Milano da parte del Barbarossa, qualche bella cascina e, infine, ci possiamo godere il verde e il paesaggio semplice e antico del parco.

 

Abbiamo già parlato diverse volte di San Bernardo, fondatore dei Cistercensi, e della sua Chiaravalle, delle caratteristiche interne e esterne di questa abbazia, delle Bottega dei Monaci e del Mulino con le sue attività.

 

Legate all’abbazia ci sono anche storie per lo meno insolite, come quella di Guglielmina Boema, la “Papessa” che fu sepolta nel piccolo cimitero dei monaci, e quella dei Templari, che devono a San Bernardo la propria regola e che stabilirono la loro Commenda a Porta Romana. C’è ancora molto di curioso, però, da raccontare su questa abbazia e lo faremo attraverso diversi aneddoti riportati su vecchi testi che abbiamo spulciato. Scrive un autore: “…mio solo desiderio è stato quello di raccogliere le notizie sparse qua e là con diligenza e amore affinché il viandante curioso… possa meglio conoscerla…” (R. Sforni, 1935). Ci proviamo anche noi?

Caravalle

Non è un errore di battitura, ma un nome antico con un’etimologia affettiva, più che storica. Secondo alcuni documenti, ripresi poi da uno storico come Carlo Torre e da un monaco cronista del Seicento, il monastero “…era detto di Caravalle perchè tutti beneficava colle orazioni et elemosine e perciò il popolo amò chiamarlo così… non solo i pellegrini erano accettati per tre giorni e gli ammalati fino alla recuperata salute…” (e siamo nel Medioevo). E così la nostra abbazia veniva chiamata e salutata dalla gente con “Cara-vale”, saluto latino benaugurante.

 

L’Unguentaria dell’abbazia

Era una sorta di “farmacia” situata a destra dell’ingresso sul cortile, di fronte alla Cappella delle Donne.

 

I monaci fecero, tra l’altro, anche importanti studi a livello sanitario, utilizzando le erbe officinali che coltivavano. Un angolo tutto dedicato ai rimedi naturali lo troviamo ancora oggi nella Bottega dei Monaci: Cara-vale!

 

La Chiesetta delle Donne

Venne costruita a sinistra dell’ingresso perchè le donne erano ammesse all’abbazia solo nel giorno della sua consacrazione e negli otto giorni successivi.

 

Dedicata a San Bernardo, purtroppo è quasi sempre chiusa e necessita di restauri. Ecco alcune fotografie che siamo riusciti a scattare in una rara occasione.

 

La “rifabbrica” dell’abbazia

Chiaravalle fu costruita, anzi “continuata” come scrisse il grande architetto Luca Beltrami, in diversi momenti. Infatti se la prima costruzione risale al 1135, come riporta una iscrizione, nel XIII secolo venne aggiunto il bel campanile, anzi, per la precisione si tratta di una torre nolare, che si innalza direttamente sopra il transetto.

 

La ciribiciaccola, “…audace, che si eleva verso il cielo in un impeto di preghiera…” probabilmente ha ispirato anche la guglia maggiore del Duomo.

 

Nella seconda metà del Cinquecento fu poi costruita la torre quadrata sulla quale venne posto un orologio del Trecento, uno dei primi di Milano, per scandire il tempo dell’uomo… e cominciò la fretta.

 

Più o meno coevi sono anche la Chiesetta delle Donne e il piccolo cimitero in cui, davanti alla tomba di Guglielmina Boema volle essere sepolto il direttore della Banca Commerciale Italiana, grande benefattore dell’abbazia. Un insolito angelo di Giacomo Manzù veglia all’ingresso del cimitero.

 

Nel corso della sua lunga storia, Chiaravalle subì anche periodi di grave declino e diverse gravi mutilazioni. Scampata alla distruzione del Barbarossa, che la risparmiò, nulle potè nei confronti della ferrovia Milano-Genova, oggi dismessa, per far passare la quale venne demolito, nel 1861, il chiostro grande del Bramante!!!

 

La bellezza e i canti come lode a Dio

Dopo il lavoro e lo studio, i monaci si ritrovavano insieme per le preghiere comunitarie. Se la loro vita era frugale, le celle austere, negli spazi comuni (abbazia, sala Capitolare, chiostro…) c’era invece ricerca della bellezza come lode a Dio ed esigenza dello spirito umano.

 

Da qui la presenza di affreschi di notevole valore (Luini, Fiamminghini…) e il bellissimo coro ligneo, spazio sonoro per ascoltare la Parola di Dio e rendergli gloria.

 

Forse in questo itinerario alla riscoperta di bellissime, antiche abbazie “…si cerca anche lo spazio senza tempo, dove vive l’Eternità…” (Christiano Sacha Fornaciari, architetto brasiliano).

Le cicogne

I monaci erano green? La regola cistercense prevedeva che le “case” fossero situate in luoghi malsani da bonificare e Chiaravalle, infatti, era una palude dove arrivavano anche le acque putride di Porta Romana. Su questi terreni paludosi e di canneti vivevano le cicogne che presto divennero “alleate” nel lavoro dei monaci. Infatti si cibavano di cavallette e di bisce d’acqua in una sorta di circuito ecosostenibile tra natura e modifica del territorio.

 

Le cicogne divennero presto animali tanto preziosi che sullo stemma dell’abbazia compare questo animale con un pastorale nel becco.

 

Una leggenda vuole che le cicogne abbiano cura sia dei piccoli (il cui “ciri-ciri” dei beccucci diede forse origine al nome “ciribiciaccola” al campanile dove nidificavano) sia degli animali più vecchi, che vengono ricoperti di piume via via che perdono le loro. Poi, improvvisamente, nella seconda metà del Cinquecento le cicogne abbandonarono Chiaravalle: stava arrivando la peste. Ma ancora oggi accolgono i visitatori all’ingresso.

 

Prosit

I monaci si dedicavano anche alla coltivazione delle viti, come appare in un vecchio foglio del “Libro dei prati” di Chiaravalle dove è disegnata una vigna del monastero.

 

Anche il vino prodotto veniva offerto ai poveri: un aneddoto riporta la leggenda di una botte tanto grande da poter contenere un uomo a cavallo con la lancia in resta, donata ai poveri dagli Archinto, una famiglia di benefattori dell’abbazia; non pensate sia una cosa impossibile, al Museo Branca ne abbiamo fotografata una forse ancora più grande.

 

Si racconta anche che alcuni cerchi di questa botte facciano parte della Ciribiciaccola. Non è il caso di brindare anche noi augurando lunga vita e prosperità alla nostra Cara-vale?

A presto…

La Strada delle Abbazie – Seconda tappa: Monluè e il suo borgo

Una bella sorpresa per la gita di Pasquetta può essere la visita alla chiesa di Monluè, seconda tappa della Strada delle Abbazie, con il suo borgo e il parco lungo il Lambro.

 

Siamo ancora a Milano, nella zona più orientale, vicino alla Tangenziale Est, la cui costruzione ha forse protetto e conservato questo antico borgo dalla speculazione edilizia.

 

La chiesa, dedicata a San Lorenzo, è stata fondata nella seconda metà del 1200 dall‘Ordine degli Umiliati di Santa Maria di Brera, chiesa oggi scomparsa, i cui resti fanno parte della Pinacoteca. Sul suo sagrato c’è ora la statua di Hayez, quello del “Bacio”. Seicento anni in pochi metri.

 

Come quelle cistercensi, questa abbazia aveva intorno una “grangia”, un piccolo centro agricolo nel quale vivevano e lavoravano i religiosi oltre a molti contadini con le loro famiglie, membri laici degli Umiliati.

Questo Ordine tratteneva per sè il puro necessario e devolveva ai bisognosi il superfluo o investiva in altre strutture. Ancora oggi Monluè conserva questo passato fatto anche di centri di aiuto e di accoglienza, sia nel borgo stesso, sia nella scuola elementare diventata troppo grande per i pochi alunni del posto.

 

La chiesa è piccola e molto semplice, fatta di classici mattoni rossi come le altre abbazie, con il tetto a capanna.

 

L’interno ha un’unica navata molto spoglia e il soffitto (molto più tardo) è a cassettoni.

 

Un bel campanile quadrato con pinnacolo si lascia intravedere anche da lontano, dalle auto che corrono in Tangenziale.

 

Accanto alla chiesa c’è la Sala Capitolare, di uguale dimensione, con lo stesso tetto a capanna e belle decorazioni interne.

 

Nel corso del tempo ha dato ospitalità a diverse famiglie; ora, invece, è tornata a tutta la comunità e ospita incontri e mostre.

 

Bello è passeggiare nell’antico borgo, forse una delle “grange” meglio conservate della nostra città, non per rimpiangere il passato ma per riannodare dei fili della storia col nostro presente.

 

Il borgo è pittoresco, ma vero, con case abitate da vecchi e nuovi milanesi; c’è anche una vecchia e rinomata trattoria dove un tempo si mangiavano i “bei gamber del Lamber”.

 

Milano non ha il grande fiume, ma tanti corsi d’acqua, e acqua c’è anche nel sottosuolo, cosa che ha dato la possibilità di irrigare i campi e di dissetare uomini e animali. Oggi purtroppo la siccità comincia a farsi sentire anche qui.

Nel bel parco di Monluè, ben attrezzato anche con percorsi ciclabili e pedonali. si può costeggiare il Lambro cogliendo scorci inusuali a pochi passi dal cemento e dalla tangenziale.

Riflettiamo sull’etimologia di Monluè. Deriva da “mons luparium”. Qui, si dice, esisteva una collinetta nelle cui boscaglie vivevano lupi e briganti. C’erano anche paludi, tanto che l’Arcivescovo eretico Frontone, vi annegò cercando di sfuggire ad una belva. Vi ricordate il Fantasma della Senavra?

 

Sono leggende che ci raccontano storie e luoghi ormai lontani. Altre sono le nostre paure e diversa è la nostra vita quotidiana. Oggi, però, godiamoci questa piacevole gita, magari per Pasquetta, portando una palla e un cestino da pic-nic. Perchè non guardare con fiducia al nostro futuro?

Buona Pasqua a tutti!

A presto…

Alla riscoperta della “Strada delle Abbazie”

L’idea per questo itinerario ci è venuta, quasi per caso, visitando la chiesa di San Pietro in Gessate (che si trova di fronte al Palazzo di Giustizia, in corso di Porta Vittoria a Milano) dove è esposto un manifesto che propone la “Strada delle Abbazie”. Come potevamo resistere ad un percorso, riconosciuto anche dal Consiglio d’Europa, così ricco di cultura, arte, fede e storia del nostro territorio e quindi anche nostra?

 

Abbiamo pensato, perciò, di andare alla riscoperta di queste abbazie situate alcune nel Comune di Milano (San Pietro in Gessate, Monluè e Chiaravalle), altre nell’hinterland (Mirasole, Viboldone, Calvenzano), infine una, la più distante, a Morimondo, vicino ad Abbiategrasso.

 

L’intero percorso è di circa 130 chilometri e lo si può fare anche in diverse tappe: in auto, in bicicletta (ci sono tante belle piste ciclabili), a piedi, per i più allenati, o anche con i mezzi pubblici urbani o interurbani. Anche noi descriveremo questo itinerario con schede per ciascuna abbazia dando un’occhiata anche ai borghi nati accanto.

 

Cosa accomuna e cosa distingue queste abbazie?

Il Monachesimo occidentale risale in gran parte a San Benedetto (Norcia 489 – Montecassino dopo il 546) che con la sua ben nota Regola “ora et labora” si dedicava coi suoi monaci tanto alla preghiera quanto al lavoro.

 

A questa regola si ispirarono anche altri ordini monastici nati secoli dopo, come i Cistercensi, i Cluniacensi e gli Umiliati, che diedero vita alle nostre abbazie. La chiesa aveva finalità di preghiera e non artistiche o di rappresentanza e si adeguava alle caratteristiche stilistiche della zona. Da qui l’uso del mattone, e non della pietra, per la costruzione delle abbazie, così bello e tipico delle nostre zone che si accende di colori rossastri a contrasto con il verde dei campi e l’azzurro delle acque e del cielo.

 

Queste abbazie, apparentemente isolate, non erano lontane da vie di comunicazione importanti (via Emilia, via del Sale, strada per Pavia) e da centri come Milano e Pavia. Questo facilitava gli scambi commerciali e culturali, offriva ospitalità ai viandanti, ma esponeva le abbazie al rischio di essere coinvolte in conflitti armati.

 

Il lavoro comunitario nei campi comportava la necessità di avere una sede stabile, vicina a corsi d’acqua, ben funzionante e attrezzata anche per la vita dei monaci e dei laici che vi lavoravano.

 

I monaci riuscirono a rendere fertili le paludi del territorio con la tecnica delle marcite e dei fontanili. La buona irrigazione portava ad abbondanti raccolti e a ricco foraggio per gli animali.

 

Il bestiame ben nutrito (come pure i cavalli, utilizzati, ahimè, per le guerre) dava tanto buon latte col quale si potevano produrre ottimi formaggi come il grana, le robiole, eccetera. Questi e altri prodotti si possono acquistare ancora oggi nelle botteghe o nei mercatini di talune abbazie insieme ad altre golosità prodotte nel territorio… più nicchia di così!

 

Il nostro itinerario può essere anche l’occasione per riscoprire antichi sapori e, magari, per qualche acquisto enogastronomico.

.Il Foscolo chiamò la nostra città “Paneropoli” tanto era ricca di “panera” (panna) proveniente dalle cascine del territorio lombardo (conoscete il panerone, formaggio tipico della Bassa padana?). Non stupiamoci quindi di vedere nel nostro itinerario cascine attive, ristrutturate o modificate, arrivate nei secoli fino a noi attraverso le “grange” dei monasteri.

 

Il territorio che attraverseremo nel nostro percorso è quasi tutto “artificiale”, come lo definì con ammirazione Carlo Cattaneo a metà Ottocento, perchè frutto dell’intervento dell’uomo. Oggi noi ne vediamo i limiti, fatti di palazzoni, centri commerciali, capannoni, fabbrichette, strade trafficate che hanno cancellato la “natura”. Non dimentichiamo, però, che il progresso e il nostro benessere attuale sono dovuti anche all’umile lavoro dei monaci che hanno bonificato terre paludose rendendole fertili e dato aiuto materiale e sociale ai nostri antenati del Medioevo.

 

Nei prossimi articoli continueremo questo itinerario sulla Strada delle Abbazie, con passipermilano e, questa volta, anche passidamilano.

 A presto…