Moti dell’animo e gesti nell’Ultima Cena (parte quarta: gli ultimi due gruppi degli Apostoli)

Terzo gruppo: Giovanni (Bilancia), Giuda (Scorpione) Pietro (Sagittario). Sono i personaggi più importanti tra gli Apostoli.

 

Giovanni. E’ il discepolo prediletto, al quale Gesù affiderà la propria madre. Contrariamente alla tradizione, secondo la quale nell’Ultima Cena viene rappresentato appoggiato al petto di Cristo, qui se ne allontana, forse richiamato da Pietro a cui sembra voler dare ascolto chinando il capo verso di lui. Forse gli sta chiedendo se conosce il nome del traditore? Giovanni, in effetti, non sembra stupito dalle parole di Gesù, ma è quasi consapevole del prossimo sacrificio. Le figure di Gesù e di Giovanni formano quei famosi triangoli che faranno pensare ad alcuni a “calice” e “lama”, simboli dell’energia femminile e maschile, se Leonardo avesse voluto rappresentare nel viso dolce e glabro di Giovanni, quello, invece, di Maria Maddalena, sposa di Gesù.

 

Il segno della Bilancia ha fatto pensare, ad alcuni, al periodo in cui la terra si prepara alla semina per il futuro raccolto. E’ anche il segno dell’equinozio d’autunno, armonia ed equilibrio tra giorno e notte. Le mani di Giovanni sono calme e conserte; questo disegno preparatorio di Leonardo è particolarmente significativo.

 

Giuda. La sua figura è oscura, in ombra, non toccata dalla luce. Nel trattato sulla pittura, Leonardo aveva scritto: “la luce non può mai cacciare in tutto l’ombra dei corpi”. Questo pensiero va oltre la pittura? Contrariamente alla tradizione, Giuda è seduto accanto agli altri Apostoli e si sovrappone in parte alla figura di Pietro (che rinnegherà tre volte il Maestro). Il corpo di Giuda va all’indietro, come fisicamente colpito dalle parole di Cristo; entrambe le mani sono contratte come artigli (Scorpione?). Con la mano destra stringe la sacchetta dei denari (era, peraltro, il tesoriere degli Apostoli), l’altra va verso il piatto dove, secondo i Vangeli (Mt. 26,23), intingerà il pane con Gesù, adempiendo alle parole del Maestro.

 

“C’è del buono in lui?” ci chiediamo parafrasando Star Wars. Papa Benedetto XVI scrisse che la “sorte eterna” di Giuda, che si è pentito (Mt. 27,3-4) ma che, distrutto da un rimorso senza speranza, si è tolto la vita, resta un “mistero” e che “spetta solo a Dio, nella sua infinita Misericordia, misurare il suo gesto”.

 

Pietro. Vicinissimo a Giovanni, i due sono profondamenti diversi. Mentre Giovanni è composto, Pietro è irruento, reattivo, forse il più dinamico dei presenti. Leonardo lo raffigura di profilo; una mano punta verso Giovanni (arco e freccia del Sagittario?), con l’altra (con un movimento così contorto da far ritenere a qualcuno che il braccio appartenga a un quattordicesimo personaggio poi cancellato) brandisce un coltello. Questo movimento compare, però, in disegno preparatorio di Leonardo conservato a Londra. Sappiamo che poche ore dopo taglierà un orecchio a Malco, servo del Sommo Sacerdote, per opporsi all’arresto di Gesù. La Chiesa sarà dunque affidata all’Apostolo più combattivo?

 

Quarto gruppo: Andrea (Capricorno), Giacomo il Minore (Aquario), Bartolomeo (Pesci). Rappresentano gli ultimi tre segni dello Zodiaco.

 

Andrea. Fratello maggiore di Pietro, è un uomo piuttosto anziano. Di lui ci colpiscono soprattutto le mani, chiarissime, con le dita divaricate, rivolte verso di noi come una barriera, in un atteggiamento netto di discolpa, come a respingere ogni accusa. Appare sicuro, completamente diverso da Filippo, simbolo del Cancro, segno opposto al Capricorno. Gli è accanto Giacomo il Minore. Parente (o forse fratello – come nei Vangeli di Matteo e Marco) di Gesù, al quale, nel dipinto, assomiglia molto. Con un braccio aggira da dietro Andrea e la mano sembra cercare di trattenere Pietro. L’altra, invece, è vicinissima a quella di Andrea, come sono vicine quelle di Simone lo Zelota e di Giuda Taddeo. Il braccio teso di Giacomo, come quello di Matteo, di fatto crea continuità e lega i gruppi degli Apostoli tra loro. Infine Bartolomeo, figura in blu scuro (come il mare?) è personaggio forte, virile, con abiti romani. Si appoggia con entrambe le mani al tavolo per protendersi verso Gesù e capire meglio. Alcuni vedono nella posizione dei piedi dell’Apostolo e nelle sue braccia aderenti al corpo, la raffigurazione di un pesce.

Questo lungo viaggio all’interno dell’Ultima Cena si interrompe. La meta, comprendere questo misterioso capolavoro, inseparabile dalla nostra città, non è certo raggiunta. A tutti “Ultreia et Suseia” (“Avanti e più in alto”) come il saluto che si scambiano i pellegrini del Cammino di Santiago.

A presto…

 

Moti dell’animo e gesti nell’Ultima Cena (parte terza: i primi due gruppi degli Apostoli)

L’Ultima Cena, realizzata in oltre tre anni (1495-98/99), con una tempera “sbagliata” su una parete soggetta all’umidità, durò meno della vita di un uomo. Infatti, già nel 1566, il Vasari scriveva che “… non si scorge più, se non una macchia…”. Dopo di allora, molti hanno “provato” a rovinare per sempre questo capolavoro (restauri inadatti, bivacchi di soldati, che lo hanno persino utilizzato come bersaglio per armi da fuoco, l’apertura di una porta da parte degli stessi frati, infine le bombe della seconda guerra mondiale); altri, invece, per fortuna, sono riusciti a farlo rivivere con un appassionato restauro (Pinin Brambilla Bercilon).

 

Oggi il Cenacolo, fragile nella sua grandiosità, è ancora lì che ci ammalia, carico di significati reconditi e di misteriosi messaggi.

La cena. I dodici Apostoli sono intorno ad un tavolo (forse di dimensioni troppo piccole per tutti), ricoperto da una tovaglia bianca e azzurra, con piatti, bicchieri di vino e del cibo, tra cui alcuni pani (qualcuno ha ipotizzato che siano disposti come le note di uno spartito). Siamo al termine di una cena di festa, la Pasqua ebraica, e tutti gli “attori” di questa rappresentazione sono colti appena dopo il colpo di scena: le parole di Gesù: “Uno di voi mi tradirà”.

 

Molti studiosi hanno cercato di interpretare il significato del numero dodici. Per alcuni questo è il numero delle Tribù di Israele, in quella terra ancora oggi così martoriata.

 

Per altri studiosi gli Apostoli sarebbero dodici come i mesi dell’anno suddivisi, a gruppi di tre, nelle quattro stagioni, il ciclo del tempo. Altri ancora hanno ipotizzato che ad ogni Apostolo corrisponda un segno zodiacale che ruota attorno al sole, Gesù e che, inoltre, ciascuno, attraverso il linguaggio del corpo, mostri il temperamento tipico di quel segno. Questa tesi è stata anche suffragata da un critico come Giulio C. Argan che ha scritto: “…è assai più di un’ipotesi suggestiva. L’Ultima Cena è costruita secondo un preciso ordine astrologico e numerologico.”. Un altro critico, il sacerdote Claudio Doglio, afferma che Leonardo è riuscito “a inserire l’uomo in una dimensione cosmica, per far riferimento a tutto l’anno e, addirittura, all’astronomia o, meglio, all’astrologia”. Ne è scaturito un dibattito tra favorevoli e contrari.

 

L’ipotesi “Zodiaco” potrebbe trovare riscontro anche negli studi di Leonardo sull’astrologia e sugli antichi saperi mediati da umanisti fiorentini, come Marsilio Ficino, e poi da docenti dell’Università di Pavia come Fazio Cardano. “Non volge retro, chi a stelle è fiso”, il sogno di Leonardo fu, peraltro, sempre quello di andare oltre, verso il cielo, comunque lo si voglia interpretare.

 

Gli Apostoli. Come scossi da un colpo di vento improvviso, sembrano ondeggiare formando quattro gruppi, di tre figure ciascuno, posti in modo simmetrico (due gruppi per parte) ai lati di Gesù. La scena va letta da destra verso sinistra, in senso antiorario, come nella scrittura ebraica e come, peraltro, scriveva anche Leonardo.

Primo gruppo. Simone lo zelota (Ariete), Giuda Taddeo (Toro), Matteo (Gemelli). Sono i primi tre segni dello Zodiaco.

 

Simone lo zelota, uomo anziano, sta discutendo con Giuda Taddeo (che sembra l’autoritratto di Leonardo), e anche le loro mani sembrano partecipare ai loro ragionamenti; i due Apostoli saranno poi insieme anche nel momento del martirio. Il giovane Matteo sta ascoltando quello che dicono o, forse, sta richiamando la loro attenzione alle parole del Maestro? Matteo è un bel giovane, un pubblicano, un esattore delle tasse per conto dei Romani, perciò considerato “nemico” da parte degli zeloti. Forse Leonardo e il priore Bandello vogliono dirci che Gesù è venuto per tutti, senza distinzioni? Da notare anche che Matteo non guarda verso Gesù, il suo viso è rivolto verso Simone e Giuda Taddeo, le sue mani, invece, verso il centro. Rappresenta forse una costellazione doppia come quella dei Gemelli?

 

Secondo gruppo. Filippo (Cancro), Giacomo il Maggiore (Leone), Tomaso (Vergine). Rappresentano molto bene nei gesti e nelle emozioni le diversità dei personaggi, ognuno dei quali sembra a sè stante.

 

Filippo si è alzato, sconvolto, unico tra gli Apostoli che porta le mani al petto, verso se stesso (gli “zodiacisti” parlano di chele), forse chiedendosi se, magari senza saperlo, possa essere lui il traditore e interrogandoci sulla consapevolezza del bene e del male. Giacomo il Maggiore, fratello di Giovanni, spalanca le braccia, creando un vuoto accanto al Maestro e impedendo, di fatto, agli altri di avvicinarsi. Tomaso passa quindi dietro di lui e Filippo cerca spazio scattando in piedi. Una folta capigliatura (una criniera?) circonda il volto di Giacomo, dove traspaiono sorpresa e ira. A lui è dedicato il Cammino di Santiago di Compostela, che ha richiamato, e richiama, milioni di pellegrini. Che sia un trascinatore come il “Leone”? Tomaso è tipicamente rappresentato dal dito che poi, per credere alla Resurrezione, vorrebbe mettere nelle ferite di Gesù. La sua mano si staglia, chiara, contro la parete scura. Vuole sapere, toccare con mano prima di credere, cercare chiarezza nel buio, controllare di persona. Temperamento da Vergine?

Continua…

 

A presto…

 

 

 

Moti dell’animo e gesti nell’Ultima Cena (parte seconda: Gesù)

Riprendiamo il nostro viaggio nel microcosmo umano dell’Ultima Cena guardando i personaggi colti nel momento successivo alle parole di Gesù “uno di voi mi tradirà”. Ognuno è diverso dall’altro ed esprime le proprie emozioni e la propria personalità attraverso l’espressione del volto, la postura, il movimento delle mani. In un istante, l’Io dei personaggi si rivela e forse un po’ anche quello di ciascuno di noi che cerchiamo di capirli.

 

Gesù. Al centro della scena, si trova, solitaria, la figura di Gesù, sul cui volto convergono le linee di fuga del dipinto: è in Lui la nostra prospettiva? Sopra il suo capo sembra esserci traccia del foro di un chiodo da cui, forse, potrebbero essere partite le corde per indicare le linee prospettiche di tutto il dipinto

 

Contrariamente alla tradizione, non c’è aureola, ma è la luce stessa del giorno che sta calando a illuminare il suo capo. O da lui che si diffonde la luce di questo giorno che va verso la fine? Occhi e bocca sono socchiusi, il volto immerso nel dramma del prossimo sacrificio, ma quasi sereno nella sua accettazione. Il Vasari scrive che il viso di Gesù venne dipinto per ultimo e lasciato volutamente “imperfetto” perchè era impossibile dipingere “quella bellezza e celeste grazia… de la divinità incarnata”.

 

Osserviamo le sue mani, che hanno posizioni quasi contrastanti: la destra esprime tensione, sembra quasi contratta e ci ricorda quella di Maria nella prima versione della Vergine delle Rocce; la sinistra è aperta, col palmo rivolto all’insù ed è accostata a un pane e a del vino.

 

Seguendo la tradizione bizantina, Gesù indossa una tunica rossa e un mantello blu, simboli rispettivamente della sua natura umana (rosso) e divina (blu). I gesti delle mani sembrano seguire la simbologia di questi colori. La destra, che esce dalla tunica rossa, appare tesa, quasi a dover prendere qualcosa di pesante e grave (natura umana); la sinistra, invece, dalla parte del blu, rivela l’offerta e l’accettazione del proprio sacrificio (natura divina).

 

Guardiamo anche la mano destra di Gesù e la sinistra di Giuda, così lontane e così vicine, si stanno avvicinando allo stesso piatto: “Colui che ha messo con me la mano del piatto, quello mi tradirà” (Mt. 26,23).

 

La risposta alle parole di Gesù, che hanno sconvolto gli apostoli, era già lì, sotto gli occhi di tutti. Grande Leonardo e grande anche il priore teologo di Santa Maria delle Grazie che seguiva incessantemente il lavoro del Maestro! Prossimamente guarderemo le mani degli Apostoli…

A presto…

 

 

Moti dell’animo e gesti nell’Ultima Cena (parte prima).

Quando recentemente abbiamo ammirato il “Compianto sul Cristo morto” al Museo Diocesano, siamo stati colpiti dalle mani dei personaggi che facevano trasparire le loro emozioni. Immediatamente abbiamo pensato all’Ultima Cena che ci “prenderà per mano” guidandoci in un viaggio anche dentro di noi.

Dal Compianto all’Ultima Cena

Come può un dipinto di arte sacra del Quattrocento essere fonte di ispirazione per artisti contemporanei e parlare all’uomo di oggi?

 

Una risposta la possono dare le quattro opere esposte al Museo Diocesano che interpretano le emozioni suscitate dal Compianto di Giovanni Bellini alla luce della sensibilità dei nostri giorni.

 

In questo dialogo tra l’artista rinascimentale e quelli contemporanei, al centro ci sono i temi universali della morte, del dolore e dell’amore che riesce a superarli. Nel Compianto le mani dei personaggi che sorreggono, curano, accudiscono e quasi accarezzano la figura di Gesù prima della sepoltura, sembrano essere la risposta fatta di gesti e sentimenti, condivisa dai presenti, alla sofferenza e al mistero della morte. .

 

Qual è, invece, la risposta dell’uomo di fronte alla minaccia e al pericolo che incombe su chi si ama? Guardiamo quel microcosmo umano dei personaggi dell’Ultima Cena di Leonardo. Ancora una volta sono il linguaggio del corpo e le mani che parlano in silenzio.

 

A differenza del Compianto, in cui tutto sembra già avvenuto e dove, forse, c’è anche spazio per la speranza di una vita ultraterrena, le mani dei presenti nell’opera di Leonardo stanno cercando risposte immediate alle parole di Gesù “uno di voi mi tradirà”. Sono mani che di fronte a un messaggio tanto sconvolgente manifestano emozioni forti e diverse, nelle quali ciascuno rivela la propria u-mani-tà e ha, per così dire, il cuore in mano.

 

L’Ultima Cena è al centro di un numero tale di letture e interpretazioni (talvolta persino fantastiche) da sembrare quasi un dipinto fatto per enigmi, per farci andare oltre e poi ancora oltre. Vittorio Sgarbi sostiene che Leonardo sia il più “psicoanalitico” dei pittori. Non daremo perciò le nostre risposte ai gesti espressi nell’Ultima Cena, ma li guarderemo insieme…

 

L’Ultima Cena era un soggetto tradizionale dell’arte sacra; ecco un dipinto del Ghirlandaio, del 1480. Come è diverso dal Cenacolo leonardesco!

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Leonardo, che era anche uomo di spettacolo per la corte sforzesca, blocca la scena, come in un fermo- immagine, nell’attimo successivo alle parole di Gesù, fotografando attesa e tensione, ira e incredulità, stupore e sgomento.

 

Tutti i personaggi sono seduti a tavola, dalla stessa parte, di fronte a noi che, come gli antichi frati del refettorio, siamo gli spettatori che assistono alla scena, invitati a decodificare gli innumerevoli messaggi (più o meno evidenti) di questa sorta di escape-room.

 

All’annuncio di Gesù, come in una sapiente coreografia, i discepoli si dividono in gruppi di tre (numero sacro). In questo movimento di corpi e di mani, Gesù rimane solo al centro della scena formando un triangolo tra capo e mani e un altro, a vertice capovolto, tra Lui e Giovanni (o Maria Maddalena, se amate la teoria in questo senso).

 

Teniamo conto, a proposito delle letture a cui si presta l’Ultima Cena, che Leonardo, uomo dalla cultura non sempre tradizionale, mentre dipingeva, era “sorvegliato a vista” dal Priore delle Grazie, Vincenzo Bandello (zio del famoso Matteo Bandello), severo teologo domenicano, che verificava il rispetto dell’ortodossia nel dipinto.

 

L’artista, forse infastidito, aveva “minacciato” per scherzo di utilizzare il volto del religioso come modello per quello di Giuda. Scrive infatti Leonardo: “Vi porrò quello, di questo padre priore, c’ora mi è sì molesto, che meravigliosamente gli si confarà.“.

 

Nel prossimo articolo guarderemo insieme i gesti e le emozioni che “parlano” nell’Ultima Cena.

Oggi, 15 aprile, è il compleanno di Leonardo. Tanti auguri, Maestro!!!

A presto

La Strada delle Abbazie – Prima tappa: San Pietro in Gessate

Iniziamo il nostro itinerario dalla chiesa di San Pietro in Gessate a Milano per godere dell’esperienza piacevole di un turismo sottocasa, ricco di curiosità, di storie e di tradizioni tutte da ricordare perchè non vadano perdute. Ad esempio, se fossimo colpiti da un raffreddore o da un attacco di sciatica, accendiamo una candela a San Mauro (nella quarta cappella di destra); secondo una tradizione meneghina questo Santo ci aiuterà. 

 

San Pietro in Gessate si trova in corso di Porta Vittoria, davanti al Palazzo di Giustizia (costruito negli Anni Trenta del Novecento dall’architetto Marcello Piacentini), massiccio e imponente, come tanti altri edifici pubblici sparsi per il mondo.

 

Invece, la nostra chiesa è tutta lombarda, fatta di mattoni rossi, corposa e soffice quasi come un panettone, un po’ in disparte, separata dal via vai del corso da un acciottolato e protetta da due grandi alberi.

 

Il passato, sornione, riaffiora anche nel titolo “in Gessate” che ci riporta addirittura al tempo in cui i Romani non ci avevano ancora invaso. I due milanisti del nostro blog hanno scelto questa foto senza voler sentire ragioni. Ci rivedremo nel derby!

 

Si pensa che il nome “Gessate” derivi dalla tribù gallica dei Glaxiati, che si era insediata in questa zona. Secoli dopo, quando nel Duecento questa chiesa venne fondata dagli Umiliati (un Ordine tutto lombardo del quale parleremo in seguito), riprese il nome di quel borgo o, taluni dicono, della famiglia nobile che lo abitava. Poi, via via, “Glaxiate” divenne “Gessate”.

 

Anche la toponomastica ci riporta al passato celtico di questa zona. Via Chiossetto, infatti, che costeggia la chiesa, sembra derivi dal celtico ciosset o ciusset che significava “campo limitato da una siepe o da un muro”.

Perchè quella strana curva a gomito che c’è ancora oggi? Forse il campo finiva qui?

 

La nostra chiesa è stata fatta e rifatta molte volte nel corso dei secoli. I Benedettini, succeduti agli Umiliati, la rifecero nel XV secolo su progetto di Guiniforte Solari, autore anche di Santa Maria della Grazie.

 

Il convento adiacente, che per lungo tempo, dopo la soppressione degli Ordini religiosi a fine Settecento, ospitò i “Martinitt”, aveva anche due chiostri, dei quali uno, per fortuna, è stato salvato e ora fa parte del Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci”. E’ bello pensare che questa scuola abbia solide radici.

 

San Pietro in Gessate è a croce latina e tre navate, con cinque cappelle per parte e abside poligonali.

 

Diversi furono i mecenati che contribuirono alla sua costruzione e alle decorazioni: dai Portinari, banchieri fiorentini, dei quali vediamo lo stemma all’esterno dell’abside, ad altri nobili che gravitavano attorno alla corte sforzesca.

 

Tra questi la famiglia dei Grifi alla quale apparteneva Ambrogio, medico e notaio di corte, che qui volle la propria sepoltura. Nella sua cappella il viso della statua tombale ci introduce già ad un certo realismo artistico.

 

Nella stessa cappella, notevoli esempi della pittura lombarda del Quattrocento sono gli affreschi dedicati alla storia di Sant’Ambrogio, purtroppo molto deteriorati. Come in una graphic novel sono rappresentati diversi episodi della sua vita: la sua miracolosa apparizione a cavallo durante la Battaglia di Parabiago (1339), l’aver impedito all’Imperatore Teodosio l’ingresso in chiesa, la condanna di un eretico…

 

Nell’affresco in cui l’eretico è appeso alla carrucola del supplizio, è presente, in basso a sinistra, anche una scimmia. Forse simboleggia l’eresia? Curiosità e misteri della nostra città, culla di eretici.

 

C’è, infine, in questa chiesa, anche un po’ di Cenacolo. Infatti ci sono dipinti del Montorfano, la cui Crocifissione si trova di fronte all’Ultima Cena di Leonardo a Santa Maria delle Grazie. Possiamo ammirare questi dipinti nella terza cappella di sinistra.

 

Chiudiamo questa “visita” con una speranza. Guardando questa foto scattata dopo i pesanti bombardamenti della seconda guerra mondiale, abbiamo pensato a quell’immagine terribile della bicicletta a terra durante gli orrori della guerra ucraina.

 

Nonostante tutto la chiesa è sopravvissuta e via via è tornata la vita. Che possa presto essere così dove ancora si soffre e si muore.

A presto…

Santa Maria della Pace, una chiesa difficile da visitare

Oggi è la festa dell’Immacolata che, con Sant’Ambrogio, rappresenta per tutti i milanesi l’inizio del periodo natalizio.

 

Siamo in un momento non facile, tormentato da guerre in atto, dure repressioni e violenze in molti paesi del mondo. Per questo, oggi, parliamo della chiesa di Santa Maria della Pace, bellissima, dalla storia tribolata, difficile da vedere… come la Pace.

 

Questa chiesa si trova in via San Barnaba, alle spalle del Palazzo di Giustizia. Sembra quasi in disparte, chiusa da un cancello che la esclude dalle visite dei fedeli.

 

Da alcuni anni è in uso, con alcuni bassi edifici di pertinenza, all’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e viene aperta al pubblico solo il primo giovedì del mese con orario piuttosto limitato.

 

Non è facile dunque visitarla, anche se ha tanta storia di Milano da raccontare. Venne, infatti, fatta costruire, assieme all’adiacente convento (oggi Chiostri dell’Umanitaria) nel XV secolo grazie alle donazioni di Bianca Maria Visconti e del figlio Galeazzo Maria Sforza per Amedeo Menez da Silva, frate francescano portoghese, non sempre ortodosso, con fama di taumaturgo, oggi Beato.

 

Di lui sappiamo che ispirò non poco anche l’opera di Leonardo da Vinci, presente a quei tempi a Milano.

 

 

Erano anni molto importanti per l’architettura milanese che vide nascere la Ca’ Granda, Santa Maria delle Grazie e San Pietro in Gessate, con i loro caldi mattoni a vista, così milanesi.

San Pietro in Gessate

 

Santa Maria della Pace fu realizzata in circa trent’anni (1466/97) ed ha un’unica navata con diverse cappelle; nel Cinquecento le fu aggiunto il campanile.

 

Ora appare piuttosto spoglia, se si escludono gli affreschi sopra l’altare, che, però, si possono guardare da piuttosto lontano.

In passato aveva altri affreschi molto importanti, poi spostati in altre sedi o andati perduti. Ora sui capitelli rimangono ancora gli stemmi del Ducato e, se guardiamo verso l’alto, possiamo vedere ciò che resta di alcuni dipinti e le parole PAX e IHS ripetute sulla volta, quasi un invito alla preghiera.

La storia di questa chiesa è stata molto tribolata durante l’Ottocento. Venne sconsacrata da Napoleone, utilizzata come magazzino, ospedale, scuderia. Infine venne acquistata da una importante famiglia e trasformata in una sala per concerti di musica sacra, il famoso Salone Perosi, che poteva contare sullo splendido organo di Pietro Bernasconi del 1891.

 

Agli inizi del Novecento la chiesa venne riconsacrata e passò alle Suore di Santa Maria Riparatrice, che vi restarono fino a metà degli anni Sessanta. Poco dopo venne acquistata dall’Ordine del Santo Sepolcro, che trasferì, negli edifici adiacenti, la propria Luogotenenza per l’Italia Settentrionale.

 

Quest’Ordine, che risale ai tempi della Prima Crociata, era stato fondato da Goffredo da Buglione nel 1099 per la difesa dei valori cristiani. Attualmente si occupa di sostenere scuole interreligiose in Terra Santa e altre opere sociali.

 

Chiudiamo questa breve “visita” sostando davanti a Lei, la Madonna della Pace. Posto in una cappella, il dipinto mostra il Bambino in una mandorla dorata come culla, vegliato da Maria con un abito tempestato dalla parola PAX, un bene prezioso dal valore inestimabile.

A presto…

 

 

 

 

Buon 2020!!!

Oggi nasce il Nuovo Anno. È giovane, scintillante, pieno di progetti e speranze, ma anche di ombre. Lo accogliamo con queste parole di Leonardo da Vinci che fanno da festone luminoso in via Ruffini, da finestra a finestra, da casa a casa.

Questa strada conduce alla chiesa di Santa Maria delle Grazie e al Cenacolo, grande capolavoro del Genio. Passo dopo passo possiamo riflettere su questa scritta e adoperarci perchè il 2020 cresca via via in “sapienza” per diventare un’ “opera” straordinaria di tutti noi.

A presto…

La Vigna di Leonardo e la Casa degli Atellani

Ancora due tesori nascosti di Milano: un palazzo rinascimentale riaperto al pubblico e una vigna, per ritrovare la quale è stato necessario, letteralmente, scavare sotto la terra di anni.

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Siamo in corso Magenta, quasi fronte al Cenacolo e a Santa Maria delle Grazie.

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Anche ai tempi di Ludovico il Moro la zona era bella, c’erano palazzi per i cortigiani, come la famiglia degli Atellani, che possedeva due case adiacenti.

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Leonardo aveva appena terminato l’Ultima Cena quando Ludovico gli regalò, con atto notarile, una bella vigna di oltre 8000 metri quadrati, situata alle spalle delle Case degli Atellani.

(4-16) Leonardo e Ludovico Sforza ragionano sul Cenacolo

Con questa proprietà terriera, il Maestro avrebbe potuto acquisire la cittadinanza milanese; un “cervello in fuga” che aveva trovato nella nostra città la sua terra adottiva.

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Sono passati cinque secoli e la nostra città ha appena vissuto l’effervescente clima di EXPO 2015.

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La Casa degli Atellani, in corso Magenta 65, è stata aperta, in parte, al pubblico dagli attuali proprietari, per permettere ai visitatori di ammirare le stanze, gli affreschi, il porticato, il giardino… e non solo.

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Questa Casa è un altro luogo poco conosciuto: quelli che in origine erano due palazzi adiacenti, sono stati uniti, negli anni Venti dello scorso secolo, dall’architetto Piero Portaluppi, genero del nuovo proprietario, Ettore Conti, presidente dell’AGIP e di Confindustria, che ne fece la sua residenza privata.

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Ettore Conti

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L’architetto ha riportato le sale del palazzo, con i loro capolavori, allo splendore di un tempo. Ci sono opere di Bernardino Luini e della sua scuola, una Sala dello Zodiaco, medaglioni di illustri personaggi; non mancano, inoltre,  interventi dello stesso Portaluppi.

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Non solo: le stanze aperte al pubblico hanno mantenuto un aria vissuta, di famiglia agiata del tempo.

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Prendiamo in prestito dal sito ufficiale la mappa del “tesoro”, per chi non potesse visitare di persona la Casa degli Atellani.

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http://www.vignadileonardo.com/la-casa-degli-atellani.html

Il giardino, anche in questo splendido palazzo, è invisibile agli occhi indiscreti di chi passa per corso Magenta. Resta un luogo appartato, protetto da alberi, tra case e cortili, molto “milanese” nel voler restare un po’ segreto.

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In fondo a questo giardino si vede qualche filare di vite, quel tesoro incredibile scoperto e fatto rinascere: la Vigna di Leonardo.

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Il Maestro, nipote di vignaioli toscani, fu sempre legato a questa vigna, dono del Duca, e a Milano, città dove aveva trovato fama e prestigio.

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Quando il Moro fu sconfitto e imprigionato, la vigna venne confiscata dai Francesi, ma Leonardo, tornato a Milano dopo qualche tempo su invito del governatore francese, ne ottenne la restituzione, tanto era forte il legame con la nostra città.

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La lasciò poi in eredità a due fedeli compagni, che l’avevano seguito in Francia, il servitore G.B. Villani e l’allievo prediletto G.G. Caprotti, detto il Salai.

Morte di Leonardo da Vinci

“Morte di Leonardo” di J.B. Ingres

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Il Salai

Poi la Storia, grande e piccola, ci mise del suo e per la vigna ci furono anni di silenzio. Ma negli anni Venti, quel grande “cercatore” di tesori milanesi che fu Luca Beltrami, riuscì ad individuare dove si trovava la vigna del Maestro e persino a far fotografare ciò che ne restava.

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vigna 1920

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La Seconda Guerra Mondiale, e altri disastri umani, coprirono di macerie anche la vigna, ma, come aveva scritto, e disegnato, Leonardo secoli prima… la vite si nasconde sotto terra e poi ricresce.

la vite di Leonardo

Leonardo la vite

Fai clic per accedere a LaVignaDiLeo.pdf

Così un team di genetisti e docenti di agraria con un famoso enologo, sono riusciti non solo a ricavare il DNA da una radice sepolta, ma, attraverso studi, esperimenti e innesti, anche a far crescere un nuovo vigneto di Malvasia di Candia, come era quello del Maestro.

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Il pubblico ha potuto visitare la Casa degli Atellani e la rinata Vigna di Leonardo durante l’EXPO 2015; poi, vista la grande affluenza, le visite sono state prorogate fino al 31 marzo 2016. Mancano quindi solo poche settimane, anche se si spera in una ulteriore proroga.

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Se potete, non perdetevi la visita al palazzo e a quella “magia” scientifica che è  la vigna di Leonardo. Quale altra città può permetterci di passeggiare nel vigneto amato da quel grande Genio?

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un “decanter” in un rebus di Leonardo

Con Leonardo “enigma”, “mistero” e “magia” non mancano mai. Per questo amò tanto Milano?

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