Riusciamo ancora a sentire la meraviglia del Natale, la magia di quel qualcosa di diverso dal nostro mondo quotidiano che risveglia un’eco lontana, forse dell’infanzia o forse arcaica?
Tra pochi giorni, con la festività di Sant’Ambrogio, inizierà tradizionalmente a Milano la kermesse natalizia, fatta di addobbi, di auguri, di regali. Un tempo intorno alla basilica del nostro Santo Patrono c’era una fiera natalizia ed erano esclamazioni di pura meraviglia: O Bej – O Bej! Le bancarelle, il profumo delle caldarroste e dello zucchero filato, il suono degli zampognari ci facevano sentire che presto sarebbe arrivato Natale.
Tutto finito? Forse sì, ma la basilica è ancora lì, con le sue meraviglie e i suoi secolari misteri. c’è ancora tanto da riscoprire… Questa cartolina è dedicata alla storia di Gervaso e Protaso, i due Santi che si trovano accanto a Sant’Ambrogio nella cripta sotto l‘altare d’oro di Volvinio.
La storia che raccontiamo avvenne nel 386 d.C. ed è tratta dalle lettere di Sant’Ambrogio alla sorella Santa Marcellina e dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. Il nostro vescovo “nè completamente sveglio, nè completamente addormentato”, mentre era assorto in preghiera, vide comparire davanti a sè due giovani molto alti tutti vestiti di bianco. Pensò ad una visione, ma essa si ripetè ancora la mattina seguente e poi ancora due giorni dopo e in quest’ultima i martiri erano accompagnati anche da San Paolo.
I due giovani erano fratelli milanesi, forse gemelli, Gervaso e Protaso, che avevano subito il martirio, nella nostra città, per non aver sacrificato agli dei pagani, l’uno decapitato, l’altro flagellato a morte.
Gli dissero di trovarsi “sotto di te, in un’arca coperta da dodici piedi di terra”, nell’area cimiteriale accanto alla basilica, davanti ai cancelli della chiesa di Nabore e Felice. “Il Signore mi concesse la grazia.- scrive Ambrogio- Feci scavare la terra e… trovammo due spoglie di straordinaria statura… Per due giorni ci fu un immenso concorso di popolo… Il giorno seguente le trasportammo nella basilica” che da allora venne chiamata Martyrum, cioè “Dei Martiri”, la nostra attuale Sant’Ambrogio.
Ci furono subito anche dei miracoli e la grande manifestazione di fede popolare segnò, a Milano, la fine dell’eresia ariana che era favorita dall’Imperatrice madre Giustina. Ambrogio aveva vinto.
Alla sua morte i due Martiri trovarono riposo accanto alla sua tomba e, dopo diversi secoli, nel 1897, vennero riuniti tutti nell’urna, realizzata da Ippolito Marchetti, nella cripta che ancora oggi possiamo visitare.
Nel 2018 la professoressa Cristina Cattaneo, docente di Medicina Legale all’Università Statale di Milano, e la sua equipe hanno esaminato le spoglie dei tre Santi. Ambrogio risulta avere proprio le sembianze dell’uomo che appare nel mosaico della basilica; inoltre, dalle rilevazioni eseguite, Gervaso e Protaso risultano molto alti (metri 1,80 circa), consanguinei, piuttosto giovani (23-27 anni) al momento della loro morte avvenuta l’una per decapitazione e l’altra per lesioni multiple e fratture costali.
Possiamo credere o no alla storia di questi due martiri ai quali sono dedicate due guglie del Duomo. In fondo ogni epoca, anche la nostra, ha le sue leggende che ci fanno entrare, magari solo per un momento, nel mondo della meraviglia e del mistero.
Buon Ferragosto Milano! Ti abbiamo fotografata così dalla terrazza della Triennale, sorta e cresciuta sopra un antico bosco sacro, il nemeton, ricca di un fascino un po’ misterioso, sospesa tra realtà, immaginazione e fantasia come l’opera di De Chirico che vediamo.
A tutti un “caldissimo” e affettuoso Buon Ferragosto!
Questa chiesa ha un passato da brividi che porta ancora nel suo titolo: San Tomaso in Terramara (o anche “Terramala”). Come sempre ci siamo incuriositi e abbiamo cercato notizie su questo strano nome che evoca antiche e fosche leggende.
Ci troviamo in via Broletto, vicino a piazza Cordusio e accanto a mozziconi di stradine un po’ tortuose, resti del passato. In piazza Cordusio (la “curia Ducis sive vulgo Cordusium dicitur”, come scrive nel Trecento il mitico storico della nostra città, Galvano Fiamma) sorgeva la residenza del Duca longobardo, anche lui attratto dal nostro centro storico. In mezzo alla piazza, secoli dopo, era stata messa la statuona di San Carlo, che venne fatta spostare in piazza Borromeo perchè la carrozza del governatore austriaco ci aveva sbattuto contro. Milano ha sempre avuto problemi di traffico.
Ora al suo posto c’è la statua del Parini, che come un umarell, guarda cosa sta accadendo oggi nel cantiere di piazza Cordusio.
Andiamo verso la nostra meta, la chiesa di San Tomaso. La possiamo raggiungere direttamente da via Broletto o, come suggeriamo, da via Rovello per berci un caffè sotto il bel porticato di Palazzo Carmagnola dove visse l’indimenticabile amante di Ludovico il Moro, Cecilia Gallerani, la Dama con l’ermellino, e dove ora si trova anche una delle sale del Piccolo Teatro .
Percorriamo il breve tratto di via Rovello e, appena girati in via San Tomaso, ci appare, inaspettato, il fianco della chiesa, quasi per invitarci a scoprirla poco alla volta, inglobata com’è tra altri edifici, tra cui un albergo.
Chiediamo alle gentilissime ragazze della reception se possiamo guardare dal giardino l’abside della chiesa, dove si trova, solitario, un piccolo bassorilievo proveniente dall’Ambrosiana. Vi è scolpito, in modo molto realistico, con breviario e Crocifisso, un sacerdote del Cinquecento, “Prete Castelletto”, al secolo Castellino da Castello, che aveva fondato la prima scuola di catechismo nel 1536, come riporta lo storico Latuada: (in vicolo San Giacomo a Porta Nuova) “vi è una picciola stanza a piano terra, in cui un prete di onesti costumi soleva radunare i fanciulli subito dopo il pranzo de’ Giorni Festivi ed insegnare loro la Cristiana Dottrina.”.
Sempre guardando l’abside verso l’alto, spicca un graziosissimo balconcino in ferro che collega la chiesa con l’ex canonica, un elemento leggero e leggiadro per un luogo dal titolo, invece, così inquietante.
Da dove deriva questo nome? Sembra che in questa zona si fossero rifugiati molti milanesi per sfuggire ai massacri delle invasioni barbariche; poco lontano da qui c’era il Palazzo Imperiale distrutto dai barbari.
Più “storico” è, invece, il truculento fatto riportato dallo storico Carlo Torre. Racconta che, al tempo dei Visconti, il curato di San Tomaso avesse rifiutato la sepoltura ad un uomo la cui vedova non aveva i soldi per pagarla. Il crudelissimo Duca di Milano, Giovanni Maria Visconti, che per caso stava passando di lì, vide la scena e si offrì di provvedere alla spesa. Il curato si mostrò ossequioso e persino commosso per tale generosità, ma Giovanni lo obbligò ad entrare nella bara insieme al defunto, per essere sepolto vivo insieme a colui al quale aveva rifiutato, per mancanza di denaro, il riposo in terra consacrata. Invano lo sventurato chiese pietà prima di essere inghiottito dalla “terra mala”.
Questo titolo venne sempre conservato, nonostante la chiesa avesse cambiato aspetto più volte nei secoli. Nel 1576, infine, fu completamente fatta ricostruire da San Carlo Borromeo con l’aggiunta, nel 1827, del pronao con le colonne, come in un tempio romano.
San Tomaso si affaccia, timida e soffocata, tra gli edifici e il traffico di via Broletto ed è un vero peccato perchè è piuttosto interessante. L’interno ha una sola navata in un sobrio stile barocco, rischiarato da un bel mosaico chiaro con scene evangeliche che, come un tappeto, conduce all’altare maggiore.
Sopra di esso si trova una sorta di piccolo tempio con una Madonna medievale. Le lunette sovrastanti sono probabilmente del Luini (o della sua scuola).
Molto significative sono le cappelle laterali con un dipinto del Procaccini, che rappresenta San Carlo in gloria, un bel Crocifisso e il raroVestigium Pedis (di cui abbiamo già parlato) nella prima cappella a destra.
Un altro tocco dark lo troviamo nella cappella a sinistra dell’altare maggiore, dove c’è una raccolta di reliquie; ognuna di queste teche è etichettata con il nome del Santo e con cosa contiene: quasi una “reliquioteca”.
A tutti buona passeggiata tra arte, curiosità e… brividi.
“…Con questo sotterfugio, “travestita” da uomo, fui ammessa all’Accademia Militare, al posto di mio fratello. Avevo già iniziato le lezioni e le esercitazioni, quando mio padre, venuto a sapere di quanto era successo, piombò a Neustadt per riportarmi a casa. Rimase sbigottito nel vedermi in uniforme e le sue parole per convincermi furono come “onda che si infrange sullo scoglio”. Fui brava a ribattere con ragionevole fermezza e feci leva anche sul concetto, a lui caro, di onore familiare per avere un figlio in Accademia. Alla fine, vinto come tanti genitori di fronte a figli adolescenti che sanno imporsi, cedette facendomi promettere che non avrei mai nuociuto al decoro della famiglia. Promisi e sempre tenni fede alla mia parola.
In cerca di altre notizie (utili forse a giustificarsi con la mamma) andò anche dai miei insegnanti di Accademia che parlarono ottimamente di “Francesco” e dei suoi risultati. Probabilmente, usando come lingua il latino, ci furono equivoci (fatti restare tali da mio padre?) e anche il dott. Haller e le sue figliole non sembravano avere dubbi sul mio genere. Così restai in Accademia dove studiavo e mi applicavo nelle esercitazioni pratiche. Quante volte ripensai a quando tiravo di scherma col righello contro le tende del collegio delle suore. Ero contenta e compiaciuta di quanto stavo facendo.
Al termine del corso dovetti sostenere un esame e mi classificai tra i migliori. Il dott. Haller, dubitando, o ormai sapendo, non mi sconfessò mai, forse temeva anche conseguenze per il certificato medico di ammissione che aveva redatto. Venni nominata Alfiere (oggi diremmo Sottotenente). I tempi richiedevano nuovi ufficiali e fui mandata al Reggimento sull’Alto Reno. C’era anche parecchia vita di società e in essa incontrai più difficoltà che non nelle attività militari. Una fanciulla di buona famiglia si innamorò di me e, forse, mi burlai un po’ del suo cuore ingenuo.
Ci trasferimmo in Polonia, a Lublino, e qui incontrai altre donne, mogli di Ufficiali, che cominciarono a fare chiacchiere sul mio viso imberbe e sulla mia “riservatezza”. Una sera un ufficiale mi riferì che le dame dicevano che fossi una “signorina”. Prontamente gli risposi di mandarmi in camera sua moglie, perchè potesse verificare di persona. Per salvaguardare il mio segreto, ero riuscita anche a comportarmi come un maschio strafottente e volgare. Mi sfidò a duello al primo sangue, ma io ebbi la meglio. Avevo però fiutato il pericolo, così la sera successiva corteggiai le signore facendo anche delle avances. Per fortuna non abboccarono. In caso contrario avrei trovato delle complici o delle nemiche? In un ambiente solo maschile non avevo mai trovato ostacoli e i colleghi avevano sempre rispettato la mia privacy. L’intuito femminile, invece, aveva messo a rischio il mio segreto.
Durante un trasferimento mi ammalai ed ebbi bisogno di assistenza. Il medico, fortunatamente, mi fece una visita molto superficiale; l’attendente che doveva prendersi cura di me era un “panduro”, cioè un soldato piuttosto sempliciotto, come vengono ancora oggi chiamati le “teste di pietra” sopra i portoni di Trieste. Mi sono chiesta tante volte se non avesse davvero mai dubitato o se, invece, avesse provato un immenso rispetto e devozione per il “suo” Ufficiale.
Appena guarita, chiesi di passare sul campo e sulle alture di Genova seppi dimostrare il mio valore guidando i miei uomini nella difesa di altri commilitoni, durante una ritirata. Il 1° marzo 1800 fui decorata e promossa Tenente.
Una “donna” fece terminare la mia avventura. Mi trovavo di passaggio a Livorno, quando mi raggiunse mia madre, un osso molto più duro di papà che, per mia sfortuna, non era potuto venire. Fu molto chiara: a suo tempo i miei genitori avevano “compiaciuto” i miei desideri e pertanto avevano “acquisito un diritto: quello di farmi tornare a casa”. Vide anche le ecchimosi sul mio seno causate dalle bende con le quali lo fasciavo per nasconderlo. Non ci fu scampo. Il mio pensiero va a papà che si era trovato tra una figlia Tenente austriaco, un altro figlio, per di più gravemente ferito, Ufficiale dell’esercito napoleonico e mia madre, una vera generalessa, alla quale, forse, assomigliavo per la determinazione.
Mio padre dovette cedere e, forse, fu anche liberatorio per lui parlare con un altissimo esponente dell’Armata austriaca e raccontargli quanto era successo, con la preghiera di congedarmi con l’onore che mi ero comunque meritato. Così, mentre mi trovavo nel mio battaglione, mi arrivò l’ordine di tornare presso la mia famiglia. Ancora una volta la grande storia si intrecciava con la mia. La mia “sconfitta” avvenne quasi contemporaneamente a quella di Marengo, quando gli Austriaci furono battuti dai Francesi.
Fui congedata con onore e con il beneficio di una pensione. I miei superiori furono molto sorpresi da tutta la mia storia, ma ebbero per me solo parole di elogio e di rispetto. Il Comandante del Reggimento mi scrisse una lettera che ancora conservo e rileggo con commozione: “Illustrissima Damigella, Eroina ed impareggiabile amica, spero che mi permetterà che la ammiri sotto questa seconda qualità … come io la veneravo quando ancora si ignorava il di lei sesso. … Per lungo tempo, ad onta della sua delicata costituzione [ha dovuto] sopportare tante gravi privazioni e fatiche … senza l’assistenza di chi potersi confidare … Ella si distinse senza esempio nel suo sesso, onorando in pari tempo il nostro. … Non sono tanto indiscreto di sapere i motivi e le circostanze che la indussero, mia cavalleresca e graziosa amica, ad esporsi a così cimentoso tramutamento. … Viva felice. … Io non cesserò di ammirarla, ed ella non si dimentichi di un amico che la venerò sempre, ed ora anche più qual donna.” In queste parole c’erano il mio passato fatto di colpi di testa, fatiche e tanta solitudine, ma anche l’augurio per un futuro felice. Se ero stata una grande donna, avevo incontrato anche grandi uomini.
La mia avventura era durata ben sei anni. Tornata a casa spesso indossavo ancora abiti maschili per cavalcare con mio fratello e mio cugino, entrambi ufficiali del Primo Reggimento “Cacciatori a Cavallo” dell’esercito napoleonico. Conobbi un bel Tenente, Celestino Spini, ci innamorammo e il 1° gennaio 1804 ci sposammo nella chiesa di San Maurizio.
Fu un matrimonio molto felice tra due Luogotenenti “nemici”, ma molto innamorati. Nacquero diversi figli; dopo qualche anno mio marito fu richiamato in guerra. Lasciai Milano e partii con tutta la famiglia per Talamona, in Valtellina, dove Celestino aveva casa e possedimenti.
Napoleone alla fine venne sconfitto e mio marito tornò a casa dopo aver dato prova di valore e onore. Non sopravvisse molto al suo Imperatore ed io, incapace di piangere, caddi in una profonda depressione. Quante volte ho ripensato alla mia vita chiedendomi che figlia e che madre fossi stata. Quando due dei miei figli manifestarono l’intenzione di prendere i voti, io mi opposi fino a quando non avessero compito i ventiquattro anni. Sono stata una figlia adolescente ribelle ma una madre autoritaria. I miei figli scelsero poi, comunque, la loro strada: Vincenzo divenne sacerdote e io abitai con lui fino alla morte, una figlia divenne suora di carità, un altro magistrato ed infine Isabella morì durante le Cinque Giornate contro gli Austriaci, per i quali avevo combattuto io. Quando la mia Accademia compì cento anni, mi invitò a partecipare alla cerimonia e mi inserì, nonostante fossi una donna, nell’album commemorativo come Ufficiale.
Questa è la mia storia, di una donna milanese, forse un po’ dimenticata, diventata, con un sotterfugio, la prima donna Ufficiale di un esercito.
Una antica e gentile tradizione che risale a popolazione celtiche e romane era quella di donare dei mughetti, primi fiori a spuntare nei boschi nel mese di maggio, per augurare amore e fortuna.
Era, ed è, un fiore inclusivo della gente comune come dei nobili, tanto che fu un re, Carlo IX di Francia, a mettere il suo sigillo reale su questa tradizione popolare donando dei mughetti, il primo maggio, alle sue dame di corte per avere fortuna in amore. Trascorsi diversi secoli una giovane borghese, Kate Middleton, volle dei mughetti nel suo bouquet nuziale quando sposò il suo principe.
Anche un’icona di stile come l’attrice americana Grace Kelly scelse i mughetti per il proprio matrimonio con il principe Ranieri di Monaco.
I mughetti hanno ispirato, talvolta, anche il mondo della cultura. Quest’anno il nostro augurio per il Primo Maggio sarà composto da alcuni “mughetti d’autore”, sbocciati, per così dire, in immagini, parole ed emozioni a volte inaspettati.
Il mughetto, fiore che indica purezza, amore e fortuna, fa capolino nella pittura europea con dipinti a tema sacro e profano. Ecco una “Annunciazione” dell’Est Europa, dove, al posto dei classici gigli, compare un vaso di mughetti
e una bella “Madonna delle fragole” risalente al Quattrocento con questi fiori che fanno da tappeto.
Anche la nobiltà di un tempo amava i mughetti; l’imperatrice Sissi li aveva voluti dipinti sulle pareti di un suo boudoir, mentre questi fiori fanno la loro comparsa in diversi “ritratti di famiglie” nobili.
Un quadro di immagini e profumi è quello fatto dalle parole di Guido Piovene in “Furie”:
“…Accaddero in quel maggio del 1947 a Parigi piccoli fatti straordinari. Le foreste buttarono una quantità di mughetti come non si era mai vista. Li vendevano a ceste a ogni angolo di strada. Anche camminando distratti si coglievano riflessi bianchi con la coda dell’occhio, luci che guizzavano via. Le strade erano tagliate da correnti di profumo esatte, in cui si entrava e usciva a intervalli. Si alzavano di tono anche i pensieri più comuni.”
Infine guardiamo la foto di due giovani donne scattata a Parigi da un maestro della fotografia, Robert Capa, che ha colto lo sguardo sognante davanti ai fiori.
Ben altre immagini sono quelle evocate da un poeta francese, Andrè Breton, in questi versi densi di passione:
“…Stavo per chiudere gli occhi Quando le due pareti del bosco che s’erano bruscamente divaricate si sono abbattute Senza rumore Come le due foglie centrali d’un mughetto immenso D’un fiore capace di contenere tutta la notte Ero dove mi vedi Nel profumo suonato a tutto spiano Prima che quelle foglie tornassero come ogni giorno alla vita cangiante Ho avuto il tempo di posare le labbra Sulle tue cosce di vetro.”
Il nostro “mughetto d’autore” termina con una poesia di Giuseppe Ungaretti, insolita per l’autore, che ha quasi il sapore di un haiku
Mughetto fiore piccino calice di enorme candore sullo stelo esile innocenza di bimbi gracile sull’altalena del cielo.
La accostiamo ad un’opera di Inna Kapitun, una pittrice ucraina contemporanea, in cui i piccoli fiori nel blu cupo danzano come attimi di vita da cogliere.
L’Epifania tutte le Feste porta via… Abbiamo invece ancora qualche giorno per andare a vedere i due capolavori esposti per NataleaPalazzo Marino e al Museo Diocesano. Non perdiamoli, perchè sembrano parlarsi a distanza e farci riflettere.
Il Museo Diocesano ci offre fino al 2 febbraio un’opera del Botticelli, l’ “Adorazione dei Magi“, proveniente dalla Galleria degli Uffizi. Come è consuetudine del Museo, il dipinto viene introdotto da pannelli esplicativi, immagini fotografiche, video, musiche, ricostruzioni spettacolari che ci fanno arrivare al cuore di quest’opera, terminata nel 1475 circa dal pittore di Urbino, per una cappella di Santa Maria Novella.
Il quadro raffigura il corteo dei Magi, che si teneva all’Epifania nella Firenze del Quattrocento, con la partecipazione della famiglia dei Medici e della loro corte. Il profano si inchina dunque al sacro? Non proprio; osservando i personaggi raffigurati (mercanti, banchieri, intellettuali…ma nessuna donna), ciascuno “manifesta” se stesso, molti appaiono distratti, non guardano verso il Bambinello, ma sono immersi nel loro presente umano.
C’è persino il committente dell’opera che si autoindica come in un selfie per rassicurarsi di essere notato e di “esserci”.
Il Botticelli, dipintosi in primo piano, vestito di giallo, ci guarda, quasi distaccato ma coinvolgente.
Sembra chiederci: “Ho dipinto come MagiCosimo il Vecchio de’ Medici ed i suoi figli Piero il Gottoso e Giovanni, tutti già defunti. Cosimo, in particolare, col viso sofferente si inchina a Gesù, accostandosi con umiltà al suo piedino. La Rivelazione avrà dunque toccato anche loro?”
Tra i presenti, osserviamo il viso di Lorenzo il Magnifico che tiene gli occhi bassi e socchiusi, forse in un momento di intensa riflessione sul potere e sul senso caduco della vita; ricordiamo i suoi versi “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia … di doman non c’è certezza”.
Un quadro solo “politico” ed agiografico o anche altro? Il Museo Diocesano, come sempre, attraverso arte e sacralità, pone interrogativi e lascia aperte le risposte.
Trasferiamoci ora a Palazzo Marino, sede del Comune. Qui è esposta un’opera proveniente dalla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, “La Madonna di San Simone” di Federico Barocci, uno degli autori prediletti dall’Arcivescovo di Milano Federico Borromeo
In quest’opera, realizzata nel 1566/67, quasi cento anni dopo quella del Botticelli, una tenerissima Maria tiene in braccio il Bambino, nudo e sgambettante. I loro sguardi sono chini su un libro, in una immagine quanto mai potente, ma dolcemente familiare.
ComeLeonardo, il Barocci disegnava su un taccuino i volti di persone comuni che poi riproduceva nei suoi dipinti; ne risultano visi reali, come quelli che vediamo in basso a destra. Sono i due committenti dell’opera, un uomo e una donna dalle gote piuttosto rosate, che sembrano uniti da una affettuosa familiarità.
In questa scena compaiono due Apostoli, San Simone e San Giuda Taddeo, che subirono insieme il martirio, simboleggiato dagli strumenti della loro morte, sega e alabarda. Come non ricordarli, sempre vicini, nell’Ultima Cena di Leonardo?
Giuda Taddeo non è rivolto verso il centro della scena, ma sembra voler quasi “agganciare” il nostro sguardo, per coinvolgere lo spettatore. E’ forse l’Amore, nelle sue diverse espressioni, la risposta alle difficoltà del nostro vivere? Osserviamo Gesù Bambino che tiene in mano una rosa, fiore pieno di spine, ma bellissimo e simbolo di amore.
Questi due capolavori della pittura italiana hanno accanto altre opere straordinarie che, anche da sole, meriterebbero un visita. APalazzo Marino è ospitato un presepe napoletano in legno dipinto del Settecento, di incredibile fattura; una rappresentazione “viva” della realtà del tempo. A fine mostra tornerà all’esposizione del Museo Arti Decorative al Castello Sforzesco.
Al Diocesano, invece, sono esposti due presepi eccezionali: il primo, in carta dipinta di Francesco Londonio, pittore lombardo del Settecento (autore anche della scenografica Natività della chiesa di San Marco), è stato recentemente donato al Museo.
Il secondo è un’opera veramente straordinaria, recentemente restaurata e che lascia senza parole. Il “Retablo dei Magi“ è una pala d’altare del Cinquecento, in legno di quercia intagliato e dorato, con diverse scene su livelli sovrapposti. In primo piano si trova la Sacra Famiglia con i Magi; guardiamoli con attenzione: sono nove, o forse anche di più!
Avevamo ammirato il “Retablo”, tutto annerito prima del restauro, nella Basilica di San Nazaro, dove sarà ricollocato al termine di questa esposizione.
Non perdete assolutamente queste opere, manca poco tempo… per fortuna l’Epifania non le porterà subito via!
Ferragosto sta per arrivare e il cielo del tramonto, così rosso e caldo, avvolge Milano e il suo simbolo, il Duomo. Le sue statue, immobili nel tempo, osservano il nostro frenetico vivere e chissà se desiderano anche loro qualche volta scendere e partecipare alla nostra vita.
Forse vorrebbero passeggiare, incuriosite dalle immagini di animali dipinti sotto lo sguardo delle cinghialessa di piazza Mercanti
Forse alcune vorrebbero cercare, come noi, un po’ di fresco neiBagni Misteriosidel Parco Sempione, o concedersi qualche ora nell’arte a Brera, o sedersi, al Verziere, accanto a un vecchio poeta bulgaro che racconta di antiche storie e di amori immortali.
Tra qualche giorno inizieranno i rientri in città e altri milanesi, invece, partiranno a loro volta per le vacanze. AI margini della città, su quello che fu l’Antico Cammino dei Monaci, quando qui era ancora campagna, El Signurun benedice chi torna e chi parte dalla nostra città.
“Agosto ce ne andiamo / solo vi lasciamo Milano / vigilate voi…” iniziamo con questi versi di Vivian Lamarque, dedicati a chi resta in città durante le vacanze altrui, un breve itinerario tra le statue e i monumenti che sembrano tenerci compagnia in questa Milano un po’ più deserta e assolata. Il Grande Disco, di Arnaldo Pomodoro, ci appare come un sole che illumina piazza Meda.
Le sculture all’aperto in città sono oltre 140, se si escludono quelle poste su chiese (pensiamo alle oltre 3000 del Duomo!) o palazzi. Ci soffermeremo, in particolare, su alcune meno note o più recenti. Fiocco azzurro per l’ultimo arrivato, l’Obelisco di piazza Enrico Berlinguer (zona Savona-Tortona), inaugurato a fine giugno. Alto quattro metri è stato realizzato in legno di recupero e metallo da Maria Cristina Carlini e porta come rughe i segni del tempo e della sua vita passata, quasi per raccontare anche storie di lavoro e di fatica di persone anonime.
Il bel monumento a Pinocchio, che fa parte di una fontana, si trova nel piccolo parco al centro di corso Indipendenza, con aree gioco e pista ciclabile. Il protagonista è Pinocchio, ormai diventato bambino, che indica il burattino che era stato. Sul basamento della statua sono incisi alcuni versi del poeta milanese Antonio Negri: “e tu che guardi, sei ben sicuro di aver domato / il burattino che è in te?“. Ci sono anche il Gatto e la Volpe… e alcuni piccioni che si godono il fresco e le briciole delle merendine.
La ricerca della statua di Tex ci ha condotto nel piccolo parco di via Mac Mahon 41, intitolato a Gianluigi Bonelli, autore del personaggio. Non facilissimo da trovare, è situato tra diversi palazzi, quasi un giardino condominiale con alti alberi.
Bonelli abitava nelle vicinanze e la famiglia, alla sua morte, ha donato al Comune la scultura dedicata all’eroe di tante avventure del mitico West. Tex è raffigurato in un momento di pausa e riflessione, accanto a Dinamite, il suo cavallo, compagno di tante vicende. La scultura in bronzo è piuttosto piccola, ma molto bella e colpisce per la sensibilità con cui viene raffigurato questo eroe, amico degli indiani, allora spesso considerati i “cattivissimi” delle storie western.
I nostri parchi ospitano spesso statue di autori famosi. Pensiamo, ad esempio, al Parco Sempione, quasi un museo a cielo aperto. Una scultura di questo parco, molto recente e che fa discutere, è il Seme dell’Arancia (o Seme dell’Altissimo, dal nome del monte delle Alpi Apuane da cui è stato tratto il marmo) già esposto a Expo 2015.
Realizzato da Emilio Isgrò, rappresenta un seme di arancio ingigantito a dismisura (circa un miliardo e mezzo di volte). L’opera lascia stupefatti per il capovolgimento delle dimensioni e risulta anche un po’ enigmatica (a qualcuno ricorda persinoL.O.V.E., il “dito” di Cattelan davanti alla Borsa).
Concludiamo questo breve incontro con le statue contemporanee di Milano con due opere: Danza, in piazza Amendola e Gesto per la Libertà, in piazza Conciliazione. “Danza”, donata nel 2006 al Comune da una casa farmaceutica, è realizzata con sbarre di metallo dipinte di giallo. Qualcuno l’ha soprannominata “il ragno morente” e, in effetti, ricorda un po’ un insetto gigante di qualche film di fantascienza di serie B. E’ situata nel quartiere Fiera, allora in fase di trasformazione in CityLife. Questa Danza è forse una metafora di alcuni cambiamenti della nostra città?
A poche fermate della linea rossa della metro, in piazza Conciliazione, si trova, dal 1981, l’opera, “Gesto per la Libertà” di un famoso artista milanese, Carlo Ramous, autore di altre sculture in spazi urbani della nostra città. Realizzata in acciaio brunito, è situata al centro di una aiuola tra i palazzi della bella zona. Come molte sculture moderne non è di immediata comprensione e lascia a chi guarda l’interpretazione dell’opera, che risulta piuttosto enigmatica… In fondo, un gesto di libertà…
Milano, XV secolo. In città erano aperti cantieri molto importanti, ad esempio il Duomo, iniziato a fine Trecento da Gian Galeazzo Visconti, e la Ca’ Granda di via Festa del Perdono, oggi sede dell’Università Statale, costruita a metà del XV secolo come ospedale, per volere di Bianca Maria e di Francesco Sforza. Quanti “umarell” di allora si saranno fermati a guardare Milano che stava crescendo!
I due edifici, poco distanti in linea d’aria, sono profondamente diversi in tutto, anche per i materiali utilizzati che, guarda caso, insieme riproducono il bianco e il rosso, tipici della tradizione milanese.
Per il Duomo giungevano i barconi, carichi del bianco (e rosa!)marmo di Candoglia, in via Laghetto; per l’ospedale, invece, arrivavano bei mattoni rossi dalla Fornace Curti di Porta Ticinese lungo il Naviglio Interno.
Per Milano procurarsi pietre da costruzione non è mai stata un’impresa molto facile; infatti non ci sono cave nelle vicinanze e il trasporto non era sempre agevole. Da qui nasce anche il “recupero” delle pietre già utilizzate altrove, spesso spostate da una costruzione demolita ad un’altra che stava sorgendo. Un esempio sono le pietre della fondamenta di San Lorenzo provenienti dal demolito Anfiteatro Romano di via De Amicis.
Vista questa carenza di cave di pietra nelle vicinanze, è stato il mattone il vero protagonista dell’architettura di casa nostra: pensiamo, ad esempio, a tutte le belle Abbazieche stiamo visitando.
Il nostro territorio è infatti ricco di argilla e abbiamo anche tanta acqua a disposizione: sorsero così, e si diffusero, i “fornaciai” che producevano mattoni e anche manufatti artistici, su disegno dei Maestri. Uno di questi laboratori esiste ancora e possiamo visitarlo: è la Fornace Curti di via Tobagi 8, vicino al Santuario di Santa Rita alla Barona.
Questo angolo di tradizione e di “saper fare” milanese nacque nel 1428 e si trovava vicino alle Colonne di San Lorenzo. Ne era proprietario il nobile Giosuè Curti che, nel 1456, ottenne l’incarico da Bianca Maria e Francesco Sforza di fornire i mattoni e i manufatti (firmati da Solari e Guiniforte) per la nascente Ca’ Granda.
Da allora la famiglia Curti ha fornito mattoni per costruire Santa Maria delle Grazie, Chiaravalle, Morimondo, la Certosa di Pavia fino alle statue in cotto del Teatro Fossati di corso Garibaldi.
All’inizio l’argilla veniva estratta vicino alla fornace stessa, in seguito alla cascina Boffalora (ora Quartiere Sant’Ambrogio, come avrebbe potuto essere meno milanese di così?). Oggi, infine, si usano miscele della Pianura Padana.
In seicento anni la sede della Fornace Curti è cambiata solo quattro volte: da quella storica vicino alle Colonne a Ripa di Porta Ticinese, dalla Conchetta sul Naviglio Pavese (dove un incendio, purtroppo, distrusse forme, suppellettili, disegni e documenti) a quella attuale che risale ai primi del Novecento.
Visitare la Fornace Curti è un’esperienza ricca di sorprese: è un “borgo del fare”, di un antico mestiere guidato con dedizione ed amore da generazioni della stessa famiglia.
Il complesso occupa l’area di una ex cascina; si susseguono palazzine basse di epoche diverse, cortili, una magnifica serra di piante grasse con vasi artistici, scale, ambienti e luoghi di lavoro e esposizioni.
Ai piani superiori delle palazzine lavorano diversi artisti coi loro studi. Ecco alcune loro opere esposte durante una giornata di festa alla Fornace.
L’antica fornace vive oggi un momento di grande creatività artistica; perchè non fare un salto in questo borgo che traspira tradizione e cultura e acquistare qualcosa di veramente speciale?