Itinerario sulle tracce di antiche storie: corso Monforte

Cosa hanno in comune nomi di vie (Monforte, Pattari, Ariberto…), strani monumenti (San Pietro Martire, Oldrado da Trèsseno,..), parole dialettali (patè,…) e persino canzoni (Prete Liprando…)?

Iniziamo un insolito itinerario nella toponomastica della nostra città cercando tra i nomi di alcune vie tracce di antiche storie, risalenti per lo più al Medioevo, che raccontano di eresie, vescovi guerrieri, lotte per il potere… in fondo un po’ di storia della nostra Milano che abbiamo ancora sotto gli occhi.

Corso Monforte Chi non conosce questa strada centralissima, che unisce San Babila con piazza Tricolore? Cosa rappresenta questo nome, che fu dato alla via il 13 settembre 1865, appena dopo l’Unità d’Italia, in tempi di rapporti non facili con la Santa Sede?

In questa zona ebbe luogo, nel 1028, uno dei più grandi roghi di eretici avvenuti in Europa, quello dei martiri di Monforte. Ci facciamo raccontare questa terribile storia da un milanese DOC del Settecento, Pietro Verri, autore di una “Storia di Milano”:

Si era sparsa la voce che nel Castello di Monforte, nella diocesi di Asti, vi fosse celata una nuova setta di eretici… Si posero loro in bocca molti sentimenti eterodossi sopra i sacri misteri della Trinità e della Incarnazione… e molti altri errori. [Dopo essere stati interrogati] “gli abitatori del Castello di Monforte vennero presi in buon numero dai militi dell’Arcivescovo [Ariberto, Arcivescovo di Milano] e tradotti a Milano insieme alla contessa, signora del Castello… L’Arcivescovo tentò di convertirli col mezzo di ecclesiastiche e pie persone, ma ciò non riuscendo, i primati [i notabili] della nostra città, temendo… che non si spargesse più largamente il veleno, alzata da una parte una croce e dall’altra acceso un gran fuoco, fecero venire tutti gli eretici e loro proposero… o di gettarsi al piè della croce, confessando i loro errori e abbracciare le fede cattolica, o di gettarsi tra le fiamme. Ne seguì che alcuni si appigliarono al primo progetto, ma gli altri, che erano la maggior parte, copertisi il volto con le mani, corsero nel fuoco.“.

Landolfo il Vecchio, un cronista quasi contemporaneo di questi fatti (la via a lui intitolata si trova vicino al Castello Sforzesco), afferma che ciò avvenne per “volere dei primati, Heriberto [Ariberto] nolente.“. Forse i notabili temevano che “questi nefandissimi… seminavano falsi insegnamenti… ai contadini che erano convenuti per conoscerli. Sarà stato, forse, anche perchè una di queste “nefandissime” regole era quella di mettere tutti i beni in comune?

Come appare oggi corso Monforte, testimone di questi terribili fatti? Anche se centralissimo, è piuttosto austero, come se il ricordo della antica tragedia l’avesse segnato e perdurasse nel tempo. Gli edifici della via sono o storici o di archistar del secolo scorso (Alfredo Campanini, Luigi Caccia Dominioni).

Due degli edifici storici (Palazzo Diotti – oggi Prefettura – e Palazzo Isimbardi – oggi sede della Città Metropolitana, ex-Provincia) furono teatro, anch’essi, di tragici fatti di sangue.

A Palazzo Diotti, infatti, che era a quel tempo sede dell’I.R. Governo austriaco, il 18 marzo 1848, un seminarista, Giovan Battista Zaffaroni, pugnalò a morte una sentinella che a sua volta reagì sparandogli; di fatto questi due giovani furono i primi caduti delle Cinque Giornate.

Ben più efferata vicenda fu quella che ebbe luogo, nel 1607, a Palazzo Taverna, ora Isimbardi. Gian Paolo Osio, lo “sciagurato Egidio” dei Promessi sposi, condannato a morte in contumacia per i suoi delitti, per sfuggire alla cattura, aveva chiesto aiuto all’amico Lodovico Taverna. Attirato nel sotterraneo del palazzo, venne fatto uccidere, poi decapitato e la testa portata al Governatore per intascare la taglia. Il palazzo, ristrutturato più volte, cambiò diversi proprietari, ma si dice che l’unico ‘abitante’ rimasto da allora sia il fantasma di Egidio che ancora vaga nei sotterranei.

Poco dopo Palazzo Isimbardi, al numero 43 del corso, la figura di un gatto in ferro battuto guarda chi passa dalla finestrella della cantina di un bel palazzo Liberty; un po’ inquietante, vista la zona.

Infine, all’angolo con via Vivaio, c’è lo strano monumento dedicato alle Vittime del terrorismo e delle stragi.

Un uomo cammina faticosamente su una trave sospesa nel vuoto portando sulle spalle curve uno zaino di luci. Opera dello scultore spagnolo Bernardì Roig, è purtroppo poco conosciuta; ne parleremo con una prossima cartolina. Questa installazione ci riporta ai nostri Martiri di Monforte e al loro sacrificio avvenuto circa mille anni fa. Purtroppo le stragi continuano ancora oggi…

A presto…

Il cuore nascosto di porta Venezia

Milano ha ancora un cuore? La nostra città lo ha sempre avuto persino nei modi di dire (Milan g’ha el coeur in man) e nella sua forma.

 

E oggi? A volte il suo cuore sembra un po’ stanco e affannato per le insicurezze, le difficoltà e i cambiamenti di questi tempi. Noi, però, crediamo che ci sia sempre. Siamo andati a cercarlo e lo abbiamo trovato nei sorrisi e nei gesti gentili delle persone, nelle tante iniziative del Bene e, inaspettatamente, in un casello del dazio di Porta Venezia.

 

Infatti, nel casello di sinistra per chi guarda da corso Buenos Aires, in una piccola nicchia, a neanche un metro da terra, c’è un piccolo cuore, fotocopia in 3D di modello anatomico realizzato da un autore contemporaneo.

 

Non è facile trovarlo tutto scuro, quasi voglia passare inosservato, senza troppo apparire, come il Bene. Non si deve cercarlo in alto, tra le statue allegoriche e i bassorilievi che raccontano la storia di Milano, ma di fronte ad un semaforo, in un angolo di traffico e di polemiche.

 

Questi caselli del dazio hanno un passato illustre. Ne parla anche il Manzoni nei “Promessi Sposi” quando Renzo entra in Milano proprio da qui. Allora consistevano “in due pilastri con sopra una tettoia per riparare i battenti e da una parte una casupola per i gabellini”.

 

Da qui “entrò” anche la peste con quel “fante sciagurato e portatore di sventure”… Sempre da qui uscivano anche i carri degli appestati diretti al Lazzaretto, fuori le mura e poco lontano.

 

Un altro angolo da non perdere accanto ai caselli è Palazzo Luraschi, in corso Buenos Aires 1, ricco di curiosità. Fu il primo edificio di questa zona a superare il limite d’altezza di tre piani, previsto per permettere di vedere la Grigna e il Resegone.

 

Nel cortile ci sono medaglioni in terracotta con i volti dei personaggi del romanzo manzoniano e alcune colonne provenienti proprio dal Lazzaretto e salvate dalla distruzione dal costruttore del palazzo.

 

Nel corso degli anni, via via, si sentì l’esigenza di rendere i nostri caselli belli e importanti, più adeguati alla zona di corso Venezia, ricca di palazzi signorili, di carrozze e di bella gente.

 

Furono perciò realizzati quelli attuali nella prima metà dell’Ottocento. Da qui entrò in città anche l’Imperatore Francesco Giuseppe, con Sissi. Da notare il baldacchino posticcio che unisce i caselli.

 

Nel tempo questa “porta” cambiò diverse volte anche il nome: da “Argentea” all’epoca romana, storpiato in “Renza”, a “Orientale”. I caselli presero poi il nome definitivo di Porta Venezia, perchè, dopo l’Unità d’Italia, erano rivolti verso la città lagunare, ancora da liberare. Una curiosità: la piazza dove si aprono è dedicata a Guglielmo Oberdan, patriota giustiziato degli austriaci.

 

C’è molta storia in questo angolo di Milano; ora mostre d’arte ed eventi come il Fuorisalone passano da qui.

 

Chiudiamo con un’altra curiosità: una piccola targa su Palazzo Bovara (corso Venezia 51) riporta una frase di Stendhal, lo scrittore francese innamorato della nostra città. “Sur le cours de cette Porte Orientale…/s’est posée l’aurore da ma vie”. Che sia d’augurio per tutti coloro che andranno a visitare il cuore nascosto nel casello di Porta Venezia.

 

 

A presto…

Uno spin-off del Lazzaretto: Palazzo Luraschi

Ancora una volta partiamo dal Lazzaretto per raccontare di un edificio legato alla sua lunga storia: Palazzo Luraschi, che si trova all’angolo tra piazza Oberdan (vi ricordate il Diurno liberty così bello e dimenticato?) e corso Buenos Aires.

Il palazzo venne costruito tra il 1881 e l’87 dall’ingegner Ferdinando Luraschi in un’area del Lazzaretto che stava per essere demolito per far posto a nuove costruzioni.

Dell’antica struttura di manzoniana memoria rimangono ormai ben pochi resti e un altro spin-off, la chiesetta di San Carlino.

Il grande quadrilatero (metri 378 per 370) tra l’odierno corso Buenos Aires, via San Gregorio, via Lazzaretto e viale Vittorio Veneto, a fine Ottocento divenne una zona molto appetibile per la speculazione edilizia, a due passi dalla Stazione Centrale, che allora sorgeva nell’attuale piazza della Repubblica.

Così l’ingegner Luraschi e Angelo Galimberti, il capomastro soprannominato “il Barbarossa di Porta Venezia” per la distruzione del Lazzaretto, fecero costruire il primo palazzo milanese che infrangeva la “servitù del Resegone”, una norma che limitava l’altezza dei palazzi della zona nord a tre piani per lasciar vedere il Resegone e la Grigna; fu un abuso edilizio? Non lo sappiamo.

Palazzo Luraschi fu costruito in uno stile eclettico, con “omenoni”, teste leonine, decorazioni e inserti in cotto; sulla cima, come pinnacoli, si stagliavano diverse statue che potevano, almeno loro, continuare a guardare le montagne.

Anche l’interno del palazzo, ristrutturato pochi anni fa, riserva delle sorprese veramente inaspettate. Varchiamo il portone e, attraverso un suggestivo androne, entriamo… nella casa dei Promessi Sposi.

Ci troviamo in un bel cortiletto porticato con al centro un pozzo; lungo le pareti dodici personaggi del romanzo ci guardano da altrettanti medaglioni, come se l’ingegner Luraschi avesse voluto rendere omaggio all’opera che parlava del Resegone e del Lazzaretto, demolito anche per costruire il suo palazzo.

Non solo: sotto la parte destra del loggiato, addossate al muro, ci sono quattro delle colonne del Lazzaretto, segno tangibile di un passato che continua ad essere presente. Ancora una volta siamo di fronte a pietre che si spostano, come spesso accade nella nostra città.

Infine un’altra curiosità di questo strano palazzo. Al piano terreno tra il 1888 e il 1940, si apriva sulla strada il Puntigam, un locale-birreria e cafè chantant che fu tra i primi a Milano ad essere dotato di luce elettrica.

Concludiamo la visita virtuale con un sorriso. Guardiamo questa vecchia foto scattata davanti a Palazzo Luraschi in una Porta Venezia quasi deserta: non richiama l’atmosfera di questo periodo?

A presto…

San Carlo al Lazzaretto… restando a casa anche a Pasqua

Perché parlare di questa chiesa alla vigilia della Pasqua 2020? E’ stata al centro del Lazzaretto durante le epidemie di peste, faro e conforto per i molti malati e per chi ne aveva cura. E’ quindi una testimonianza fisica di sofferenze lontane, ma anche di rinascita.

“Tu vedi quella chiesa lì nel mezzo… [disse Padre Cristoforo] e, alzando la mano scarna e tremolante, indicava a sinistra nell’aria torbida la cupola della cappella, che torreggiava sopra le miserabili tende;” (I Promessi Sposi, cap. 35). Renzo si reca al Lazzaretto per cercare Lucia. Sono gli anni della peste che ci riportano purtroppo a quanto sta accadendo intorno a noi.

La chiesetta, che fa parte della storia e della letteratura di Milano, esiste ancora e si trova in una piazzetta lungo viale Tunisia, raggiungibile con i tram 5 e 33 o con la metropolitana M1 (rossa) fermata Porta Venezia.

È dedicata a San Carlo al Lazzaretto per distinguerla dalla ben più famosa San Carlo al Corso, ma è conosciuta dai milanesi DOC con l’affettuoso diminutivo di San Carlino.

Oggi è inserita in  un popoloso quartiere, ma nel 1576, quando fu costruita su progetto dell’architetto Tibaldi, si trovava esattamente al centro del grande quadrilatero del Lazzaretto.

Ecco come una guida d’eccezione, Alessandro Manzoni, ci descrive la chiesa:  “La cappella ottangolare che sorge, elevata d’alcuni scalini, nel mezzo del lazzeretto, era, nella sua costruzione primitiva, aperta da tutti i lati, senz’altro sostegno che di pilastri e di colonne, una fabbrica, per dir così, traforata: in ogni facciata un arco tra due intercolunni;

dentro girava un portico intorno a quella che si direbbe più propriamente chiesa, non composta che d’otto archi, rispondenti a quelli delle facciate, con sopra una cupola; di maniera che l’altare eretto nel centro, poteva esser veduto da ogni finestra delle stanze del recinto, e quasi da ogni punto del campo.

Ora, convertito l’edifizio a tutt’altr’uso, i vani delle facciate son murati; ma l’antica ossatura, rimasta intatta, indica chiaramente l’antico stato, e l’antica destinazione di quello.” (I Promessi Sposi, Cap. 36)

La nostra chiesetta, nei duecento anni tra la peste ricordata dal Manzoni (1630) e la stesura dei “Promessi Sposi” (1840) aveva vissuto varie vicissitudini ed era passata persino, nel periodo napoleonico, da polveriera dell’esercito accampato nel Lazzaretto, a Tempio della Libertà, su progetto del Piermarini.

Verso la fine dell’Ottocento le sorti della chiesetta e del Lazzaretto si separano. Il Lazzaretto, un grande spazio edificabile in una zona in espansione, attraversato dalla ferrovia e vicinissimo alla vecchia stazione Centrale, viene demolito e lottizzato.

La chiesa, rimasta orfana del suo Lazzaretto, fu, invece, acquistata, grazie ad una sottoscrizione popolare, nel 1884 dalla parrocchia della vicina chiesa di Santa Francesca Romana. Venne poi ristrutturata e riconsacrata col titolo di San Carlo al Lazzaretto (prima era dedicata a San Gregorio) per ricordare l’opera del Cardinale durante la peste del Cinquecento.

All’interno, un grande quadro sopra l’altare raffigura San Carlo Borromeo mentre benedice gli appestati.

Recentemente, dopo nuovi, lunghi e accurati lavori di restauro, sia interno che esterno, la piccola chiesa è stata riaperta ai visitatori e ai fedeli.

Una piccola curiosità: la chiesa di San Carlo ha dato il nome alle famose patatine nate, nel 1936, in una rosticceria che si trovava in via Lecco, proprio di fronte al nostro San Carlino.

La chiesetta di San Carlo è memoria di epidemie lontane, ma anche di rinascita umana e sociale. Purtroppo ancora oggi stiamo vivendo una pandemia che sembra non avere fine, non perdiamo, però, forza e speranza.

Concludiamo ancora con un passo dei Promessi Sposi:” … dolori e imbrogli della qualità e della forza di quelli abbiamo raccontato, non ce ne furono più per la nostra gente: fu, da quel punto in poi, una vita delle più tranquille, delle più felici, delle più invidiabili …” (I Promessi Sposi, cap. 38)

Auguriamoci che ciò avvenga anche per noi tutti e che, come nel periodo pasquale, dopo il buio venga la luce della Rinascita: una affettuosa Buona Pasqua a tutti!

A presto…

Milano – Monza andata e ritorno: la tragica vita di una monaca famosa (Parte Terza)

Milano, convento di Santa Valeria, 25 settembre 1622.

La porta della cella, dove era stata rinchiusa per tredici anni Suor Virginia, viene abbattuta.

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La monaca ha ricevuto un provvedimento di clemenza da parte del Cardinale. La priora del convento di Santa Valeria, luogo di detenzione per prostitute convertite e monache peccatrici, aveva più volte scritto a Federigo Borromeo per mettere in luce il cammino spirituale di preghiera e penitenza di Virginia.

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La monaca ha 45 anni, è debole e malandata e non c’è più traccia della bellezza e del fascino di un tempo. È profondamente cambiata dopo aver trascorso la lunga prigionia in una cella buia e maleodorante, sempre con lo stesso abito e su un pagliericcio buttato sul pavimento che veniva cambiato ogni sei mesi, ma che dopo due era già logoro e sudicio.

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Lei, la “Signora”, era sopravvissuta senza impazzire alla fame e alla sporcizia, al freddo e al caldo e, soprattutto, alla solitudine; sola con una Bibbia per tredici anni, abbandonata da tutti, in primo luogo dalla sua famiglia.

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Al processo si era dichiarata vittima del padre che aveva anteposto l’interesse del casato alla vita della figlia. Quando fu arrestata e venne processata, la potente famiglia De Leyva l’aveva disconosciuta, cancellandola persino dall’albero genealogico, pur non rinunciando ai suoi beni. Per difendere l’onore del casato le avevano persino fatto avere una fialetta di veleno, che era stata sostituita in carcere con un’altra non letale.

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Anche i Marino, la ricca famiglia della madre, avevano chiuso il cuore e la porta del palazzo dove era cresciuta.

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Erano tempi difficili. Virginia era vissuta in un’epoca complessa, quella della Controriforma, dove convivevano opere di moralizzazione religiosa e l’efferatezza dell’Inquisizione. Di questi anni sono il Compedium Maleficarum di Francesco Guazzo (1630), con l’Imprimatur del Cardinale, e i supplizi di tanti disperati, come Caterina Medici (1617) e Gian Giacomo Mora (1630), contemporanei quindi di Virginia.

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La monaca aveva pagato caro sia l’amore per Paolo, il padre di sua figlia, che le aveva usato violenza… trascinandola in un vortice di passione e dolore, sia il potere feudale, che aveva ingolosito chi la compiaceva per il proprio vantaggio.

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Quanto fu vittima e quanto colpevole? In un’opera di Giovanni Testori, Virginia arriva a inveire anche contro la propria madre che aveva generato un mostro: lei.

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Forse Virginia aveva affrontato, durante la prigionia, una lettura interiore più profonda della propria vita e non sappiamo, possiamo solo immaginare, quali fantasmi, quali ombre, quali visioni abbiano affollato la sua mente e le abbiano tenuto compagnia per non farla impazzire. Forse anche il ricordo della figlia?

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Le monache del convento di Santa Valeria parlavano di lei quasi come di una santa, dedita alla preghiera e alla penitenza; non fu però una creatura fragile e vinta quella graziata, tanto da avere la forza di chiedere e ottenere un colloquio col Cardinale Federigo.

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Il loro  rapporto all’inizio fu diffidente e difficile tanto che  il Cardinale arrivò ad apostrofarla con durezza: “Come mai non ti vergogni, impudica, di accostarti al tuo Pastore?… Tu, degna di ogni supplizio, di morire in prigione… vuoi che ordini per te punizioni anche più terribili? Non sei tu colei che tanti anni fa eri così altera e sdegnosa?” Dopo queste dure parole, però, il Cardinale, mosso a compassione, fece anche acquistare per lei una nuova veste e quanto le occorreva.

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Ci furono altri incontri ed un fitto carteggio. Non solo, Virginia volle ed ottenne l’assoluzione proprio da Federigo. Era profondamente pentita, ma non doma e le restava, forse, un po’ dell’antica fierezza dei suoi antenati.

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Federigo divenne via via talmente convinto del pentimento di Virginia che ne avrebbe voluto scrivere la biografia, ma la morte di lui, nel 1631, non lo rese possibile.

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Virginia non volle mai lasciare la cella della sua prigionia e si adoperò fino alla fine per essere vicina e aiutare le recluse. La vita religiosa, un tempo subita e odiata, era diventata una scelta di fede e un cammino verso Dio. Morì il 17 gennaio 1650, a 75 anni

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La vita di Virginia si divide tra il convento di Monza, della quale fu la “Signora”, nel periodo più noto della sua esistenza, e Milano, dove nacque (nientepopodimeno che a Palazzo Marino!) e visse fino alla fine dei suoi giorni. Il convento di Santa Valeria non esiste più, demolito nel Settecento, e rimane solo il ricordo di questa antica storia.

Oggi si possono fare quattro passi in via Santa Valeria, alle spalle di Sant’Ambrogio, e nei dintorni.

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Alcune lettere del carteggio tra Virginia e l’Arcivescovo sono custodite all’Ambrosiana, voluta dallo stesso Borromeo. In una di queste il Cardinale scrisse “ormai era una donna che non apparteneva più al mondo, ma a qualcosa che dava pace solo a guardarla”.

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Riposa in pace, Marianna, tuo vero nome, donna che hai avuto il coraggio e la forza di vivere tempi ostili.

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Milano – Monza andata e ritorno: la tragica vita di una monaca famosa (Parte Seconda)

Milano, Pia Casa delle Convertite di Santa Valeria, 17 ottobre 1608.

La piccola cella di tre metri per uno e ottanta si apre davanti a Suor Virginia, la monaca peccatrice giudicata “colpevolissima” di “plurima, gravia… et atrocissima delicta” negli Atti del Tribunale Ecclesiastico.

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Sarà murata viva per sempre, collegata al mondo solo da uno sportello per il cibo e da una finestrella per far entrare un filo di cielo.

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Le passioni e gli orrori della sua vita resteranno un ricordo e Virginia avrà tempo per ripensare al suo passato ed espiare le proprie colpe. Quali colpe? La monaca, al processo, aveva dichiarato di essere sempre stata vittima e che il Male doveva essere cercato fuori, non dentro di lei. Aveva firmato la sua deposizione, una mano storpiata dalla tortura.

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Forse l’orgoglio di casta, che l’aveva portata anche a ribellarsi all’arresto sguainando una spada, era stato ferito più della mano sottoposta al tormento dei sibilli per il “tempo di due Miserere”.

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Si sentiva vittima del padre, che l’aveva malmonacata a undici anni e rinchiusa nel convento di Monza, feudo familiare, per godersi l’eredità lasciata a Virginia dalla madre.

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Nel convento era considerata la “Signora”, riverita e potente; alcuni, però, avevano via via saputo leggere in lei una sorta di inquietudine interiore e l’avevano quasi guidata, passo a passo, allo scopo di rendersela amica ed ottenere vantaggi, verso le braccia di Paolo Osio, il nobile che viveva nel palazzo accanto al convento.

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Si sentiva vittima anche di Don Arrigone, il curato della chiesa vicina. Egli, che già aveva un’amante in canonica, aveva tessuto una trama diabolica, conducendo la monaca con bugie, stratagemmi e “incantamenti” (anche una calamita benedetta, fatta baciare ai due innamorati) a cedere al desiderio di Paolo, amico e benefattore del religioso.

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Il parroco, che forse desiderava anche per sè Virginia, per interesse o trofeo sociale, sarà condannato dal Tribunale a tre anni di remi su una nave spagnola nel Regno di Napoli.

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Virginia aveva cercato in ogni modo di allontanare Paolo dalla sua vita: aveva gettato le chiavi con le quali il nobile entrava in convento, grazie anche alla complicità non disinteressata di alcune monache. Aveva fatto voti, si era sottoposta perfino a sortilegi e filtri contro la propria passione, fatti anche con gli escrementi dell’amato.

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Le monache che le vivevano accanto coprivano quanto stava accadendo, anche per raccogliere le briciole del vigore di Paolo, quando Virginia si rifiutava o cadeva ammalata, forse per il senso di colpa.

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Le consorelle l’avevano anche aiutata quando Virginia aveva partorito prima un bimbo nato morto, successivamente la piccola Alma, frutto di quelle due anime piene di amore e di tormenti. Paolo aveva riconosciuto la bimba, che era vissuta nel palazzo accanto al monastero. Forse il ricordo di questa figlia, un sacchettino con un ricciolo, accompagnò Virginia nei pensieri della sua lunga prigionia.

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A Monza lo “strano” matrimonio tra Paolo e la “Signora” era sulla bocca di tutti e troppi sapevano e parlavano. Caterina, una conversa, cameriera di Virginia, minacciò di svelare tutta la tresca ai superiori della Diocesi.

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Forse sarebbe bastato comperare il suo silenzio; Paolo, invece, in un estremo tentativo di difendere l’onore dell’amata, fece tacere per sempre la conversa, inscenandone la fuga. Certi delitti sono ancora gli stessi dopo secoli…

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A questo omicidio ne seguirono altri. Furono uccisi dai suoi bravi lo speziale e il fabbro che avevano parlato troppo.

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Tutto precipitò: Virginia, che non aveva voluto ascoltare per tempo gli ammonimenti del Cardinale, Federigo Borromeo, venne arrestata e condotta a Milano presso il monastero di Sant’Ulderico al Bocchetto a Porta Vercellina.

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resti del chiostro durante la demolizione

Osio, accusato di omicidio, si era nascosto in convento su consiglio di Don Arrigone. A questo punto non poté far altro che fuggire rifugiandosi nella Bergamasca, allora sotto la Repubblica di Venezia.

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Durante la fuga Paolo cercò di liberarsi con la violenza delle due monache che lo avevano seguito, spaventate dalle accuse che avrebbero potuto esser loro rivolte. Tuttavia Suor Ottavia e Suor Benedetta riuscirono a sopravvivere. Furono arrestate e confessarono sotto tortura quanto era avvenuto al convento di Monza, dando conferma dei delitti commessi. Suor Ottavia morì per le ferite, mentre Suor Benedetta venne murata viva come altre due consorelle complici dell’accaduto.

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Paolo, ormai braccato, tentò con ogni mezzo di salvare Virginia, tornando a Milano e mettendo a repentaglio la propria vita. Si rifugiò nel palazzo dell’amico conte Taverna e qui sarà fatto uccidere a tradimento dal nobile, legato al governatore spagnolo e allettato dalla taglia.

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Si dice che ancora oggi, in quello che ora si chiama Palazzo Isimbardi, in corso Monforte, si sentano misteriosi rumori provenire dai sotterranei, dove fu ucciso il nobile.

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continua…

Milano – Monza andata e ritorno: la tragica vita di una monaca famosa (Parte Prima)

Quando attraversiamo piazza della Scala o passeggiamo in quella bolla fuori dal tempo che è la tranquilla piazza San Fedele, non dimentichiamoci la lunga storia di Marianna de Leyva, che nacque a Palazzo Marino verso la fine del 1575.

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Il Manzoni aveva parlato con estremo pudore di lei, la suor Gertrude dei Promessi Sposi. Un filo di vita e di morte sembra quasi legare i due personaggiLa statua dello scrittore si trova in piazza San Fedele, di fianco al palazzo in cui nacque Marianna e davanti ai gradini della chiesa sui quali egli cadde trovando poi la morte.

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La bimba aveva antenati  veramente VIP. Il bisnonno paterno era stato il primo governatore spagnolo di Milano e il padre era un noto condottiero dalla sfolgorante carriera alla corte del Re di Spagna.

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Antonio, bisnonno di Marianna

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Martino, padre di Marianna

Da parte di madre, Marianna discendeva da una prestigiosa famiglia di banchieri genovesi, da quel Tomaso Marino ricchissimo e tanto chiacchierato da essere addirittura vittima di una maledizione che si “sarebbe” dovuta perpetuare nel tempo. Di quest’uomo, al quale si deve Palazzo Marino, sede del nostro Comune, parleremo in un piccolo cameo a lui dedicato, tanto intrigante è la sua vicenda umana.

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Tomaso Marino, nonno materno di Marianna

Torniamo alla piccola Marianna. Per poco tempo potè conoscere il calore di una famiglia.

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dal fumetto di A. La Monica (in arte Alexader Tripood)

Il Fato, infatti, le tolse subito la madre Virginia, morta di peste quando la bimba aveva pochi mesi. La piccola crebbe affidata alle zie in un “appartamento” di Palazzo Marino. Eccone la planimetria:

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Non sappiamo molto di questo periodo; l’ambiente in cui visse la sua infanzia era piuttosto bigotto e, forse, infelice. Sembra che una zia avesse avuto dal proprio matrimonio poco amore, tanti figli e… la sifilide. Il Manzoni ci dice che Marianna crebbe condizionata dal suo futuro di monaca, succube di un padre autoritario.  Probabilmente non fu così, perché il padre era spesso assente preso dalla sua carriera prestigiosa.

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Alla sua morte Virginia aveva lasciato eredi di ingenti sostanze la bimba e il figlio maschio nato da un primo matrimonio. Le altre quattro figlie del primo marito intentarono causa alla piccola sorellastra. L’eredità di Marianna ne uscì ridimensionata, ma comunque tanto sostanziosa da far gola anche a suo padre.

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Quando questi si risposò con una nobildonna spagnola e si ritrovò in difficoltà finanziarie, la strada della dodicenne Marianna fu segnata: doveva diventare monaca. Nonostante avesse trovato il coraggio di manifestare al padre il proprio desiderio di una vita diversa, il genitore fu sordo e irremovibile; non le rivolse più la parola finché la ragazzina accettò il proprio destino, sperando di essere “nuovamente” amata.

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Così le porte del prestigioso convento di Santa Margherita a Monza, che era parte del feudo dei de Leyva, si richiusero alle spalle dei desideri di Marianna e la sua eredità rimase al padre.

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Come avrebbe potuto la ragazza fare diversamente? Il monacandato era spesso la sorte che toccava a molte giovani donne di nobili natali, per non disperdere il patrimonio familiare. E le loro aspirazioni?… non contavano nulla.

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Le cronache ci presentano una Suor Virginia (Marianna aveva preso il nome della madre), altera contessa di Monza attenta ai suoi obblighi di Signora verso il feudo e severa nell’educare le fanciulle a lei affidate.

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Il Fato ci mise, però, di nuovo lo zampino. Il convento confinava con il palazzo di una prestigiosa famiglia, gli Osio. Il più giovane rampollo di questa, insieme ai suoi amici, usava stuzzicare le educande del convento.

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Giovanni Paolo, lo “sciagurato Egidio” del Manzoni, aveva adocchiato la quindicenne Isabella, una allieva di Marianna. Il giovane la “tentò”: baciò una mela e gliela lanciò. Isabella la raccolse.

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A. Tripood

Suor Virginia vide, la richiamò e, forse, cominciò ad insinuarsi in lei stessa il desiderio di assaggiare il frutto avvelenato della “conoscenza”.

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Suor Virginia avvertì i genitori della fanciulla che intervennero subito; la tolsero dal convento e la punirono crudelmente dandola in sposa, dopo solo quindici giorni, a un anziano e ricco signore. Per Isabella era finito “il Tempo delle mele”.

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La Signora di Monza aveva deciso di  condannare all’esilio il nobile, accusato anche di aver ucciso in duello un uomo dei de Leyva. La Superiora del convento, però, amica della famiglia Osio, con la madre del giovane, fece pressioni su Suor Virginia e la convinse a ritirare la condanna. Paolo, così tornò di nuovo nel palazzo vicino al convento.

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A. Tripood

Dopo qualche tempo il giovane scrisse a Suor Virginia una lettera. Fu per ringraziarla, per sfida, per capriccio, per attrazione? Non lo sappiamo.

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Come in una sorta di antico Social, a questo punto entrarono in gioco gli “amici”, a conoscenza di quanto stava avvenendo. Gioca un ruolo di primo piano Don Arrigone, parroco della vicina chiesa, il più abbietto e subdolo personaggio della vicenda. Amico di Paolo, gli consigliò  come scrivere le lettere indirizzate a Suor Virginia per farla cedere (la voleva anche per sé?).

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La Signora fu sempre più avviluppata in una ragnatela di persone spinte da legami di interesse, di compiacenza, di passioni. In lei s’intrecciarono solitudine e scelte subite, tentazioni, desiderio e senso di colpa, sicurezza del potere, menzogne e superstizioni…

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Questo è solo l’inizio di una storia tragica e intrigante, che inizia e si conclude a Milano. Il seguito alla prossima puntata, dopo le Feste.

Continua… 

Monza celebra la sua “Signora”

Il personaggio è intrigante, ma anche “la donna” non fu da meno. Il Manzoni la chiama Gertrude, nome duro e contorto, senza dolcezza; il suo vero nome era Marianna de Leyva, nobildonna milanese di origine spagnola, divenuta monaca alla fine del 1500, come Suor Virginia.

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La conosciamo a volte semplicemente come “la Monaca di Monza”, facendo riferimento solo a quel segmento tragico della sua vita, trascorso nel monastero monzese di Santa Margherita, che la vide diventare amante, madre e anche complice di un omicidio.

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Monza, antico feudo dei de Leyva durante la dominazione spagnola, dedica ora alla Signora una ricca serie di iniziative, spettacoli e due belle mostre aperte fino a gennaio 2017.

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Le sale del Serrone della Villa Reale di Monza ospitano una scelta di dipinti, incisioni, documenti e video per riflettere sulla vita e la storia della Monaca,  sulla società del suo tempo e sul fenomeno della malmonacazione.

http://www.comune.monza.it/it/eventi/?id=1883

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I Musei Civici di Monza, invece, presentano la figura della “Monaca di Monza dal romanzo al cinema al fumetto”. Sono esposti manifesti cinematografici, libri, fumetti e parodie. Si spazia dalla letteratura nei suoi vari generi alla cultura dell’immagine.

Fai clic per accedere a Brochure-Monaca-4-ante1.pdf

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Quella di Suor Virginia è una figura complessa. Non è solo una storia hot, ma suggerisce spunti per una riflessione sulla condizione femminile del suo tempo, sui condizionamenti, sulle scelte pagate a caro prezzo, sulla possibilità di espiare le proprie colpe diventando diversi.

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Per restituirle la sua storia, abbiamo pensato di raccontare le sue vicende umane per intero. Non solo Monza, quindi, dove visse gli anni che la portarono al culmine di una vicenda scabrosa, ma anche Milano, dove nacque e dove, dopo i lunghi anni di espiazione, avvenne la sua rinascita. Iniziamo da Palazzo Marino, dove, nel 1575…

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Continua…

Un “noir” nella Milano di inizio Seicento

Se vi trovate nella zona del Lazzaretto, magari seguendo il nostro itinerario (bellissimo e sconosciuto, fidatevi!!!), guardate l’angolo di cielo sopra via Settala.

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C’è una storia antica, oscura e terribile, da conoscere, per chi voglia uscire da Google Maps e scavare nella memoria della nostra città.google-maps-3

Lui è quel Lodovico Settala al quale è stata dedicata la via. Era il Protomedico, cioè il più alto funzionario sanitario pubblico di Milano, uomo stimato, potente, un’autorità del suo tempo. Stava indagando sul legame tra ambiente e peste, in un periodo in cui si credeva che questa malattia fosse causata dagli untori.

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Lei, Caterina Medici, senza “de” (non apparteneva alla nobile casata fiorentina) era nata a Broni, nel Pavese, figlia di un maestro.

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La ragazzina aveva imparato a leggere, a scrivere e forse molto altro; si sposò a 13 anni con un uomo violento che la picchiava e la faceva prostituire.

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Il marito morì dopo pochi anni. La ragazza andò a servizio, cambiando molti padroni, passando da osterie a case nobili o di ufficiali. Non era bella, ma “carnosa e di ciera diabolica”, come scrissero alcuni suoi contemporanei, e molto intelligente.

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Un certo capitano Squarciafico, dal quale lavorava, le fece fare tre figlie, di cui due riconosciute. Non sappiamo se fosse una storia d’amore, ma il Vescovo di Casale Monferrato, città dove lavorava, mise fine alla loro unione di fatto, perchè faceva scandalo. Non è un argomento solo di quattro secoli fa, così lontano da noi…

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La donna fu allontanata senza le figlie e, infine, andò a servizio a Milano presso un nobile, Luigi Melzi. Il nuovo padrone, sessantenne, era solo, con figli grandi; soffriva di dolori allo stomaco e di melanconia.

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I grandi medici di Milano, tra cui il Settala, che l’avevano in cura, non riuscivano a curare la gastralgia, mentre la melanconia la curava Caterina.

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Il nobile le “faceva visita” spesso e trovava conforto alla sua solitudine. Questo insospettì non poco i figli, che temevano per la nuova vita del padre… e… per la loro eredità.

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Il caso condusse a casa Melzi un  certo capitano Vacallo, che aveva conosciuto in precedenza Caterina. Il capitano era convinto che la giovane donna avesse usato contro di lui dei filtri d’amore in combutta con un’altra donna che avrebbe voluto farlo innamorare.

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Ed ecco l’accusa: Caterina era una strega che stava usando con il Melzi sortilegi e filtri magici d’amore, i quali causavano anche i violenti dolori gastrici.

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Davvero una bella badante doveva usare filtri per far innamorare un uomo anziano, lasciato solo?

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Il figlio e le due figlie suore del Melzi denunciarono la donna, che venne messa sotto processo. Ci furono molti testimoni, tra i quali anche il Settala, cui, forse, non parve vero di poter attribuire a Caterina l’insuccesso delle proprie cure.

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Caterina non negò mai di essere una strega, e venne torturata, tenagliata e condannata al rogo in piazza Vetra il 4 marzo 1617. Il Melzi le sopravisse di altri otto anni.

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Di questa storia terribile parlarono il Verri, il Manzoni e, in tempi più recenti, Sciascia. Vengono messi sotto accusa la Giustizia, la Società, la superstizione, l’avidità.

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La “fede” nella stregoneria aveva accomunato di fatto vittima e carnefice, accusatore e accusata: la medicina ufficiale credeva nelle streghe quanto Caterina.

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E se Caterina fosse stata davvero una “strega” a conoscenza di un sapere antico? Ogni sapere ha i suoi sacerdoti, i suoi riti, le sue “magie” scientifiche in qualsiasi tempo…

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C. Barnard – primo trapianto di cuore

La lunga storia del Lazzaretto

Il Lazzaretto appartiene alla storia di Milano da oltre cinque secoli. Infatti nel 1488 fu posta la prima pietra di questa sorta di reparto di infettivologia per non abbienti, realizzato per fronteggiare le epidemie di peste, isolando i malati. Questa cittadella quadrata (378 metri per 370) appariva quasi una fortezza alla rovescia, con il nemico, la peste, tenuto, per quanto possibile, prigioniero all’interno.

Lazzaretto e la chiesetta di San Gregorio

Sul suo nome ci sono due ipotesi principali: l’una lo farebbe risalire al primo ricovero veneziano di Santa Maria di Nazaret, termine poi trasformato in Nazaretto e, infine, Lazzaretto.

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L’altra, invece, farebbe derivare il nome da Lazzaro, il mendicante coperto di piaghe della parabola evangelica del Ricco Epulone.

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Ci sono anche altri due Lazzari presenti alla nascita del Lazzaretto di Milano. Omen Nomen dicevano i Latini; il nome è un presagio. Forse è andata proprio così…

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I due Lazzari sono Lazzaro Cairati, illuminato notaio dell’Ospedale Maggiore Ca’ Granda al tempo del Moro e Lazzaro Palazzi, un self made man che aveva iniziato la sua carriera come scalpellino nella Fabbrica del Duomo, diventando poi “ingegnere ducale”, pur essendo, sembra, analfabeta. A lui taluni attribuiscono anche la Cappella Brivio di Sant’Eustorgio.

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Non senza difficoltà economiche e sociali, i due Lazzari portarono avanti il progetto di questa cittadella costruita fuori le mura di Milano, sui terreni della Basilica di San Dionigi, che sorgeva dove oggi c’è il Planetario.

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Questa fortezza sanitaria era piuttosto confortevole e dignitosa. Le camere/celle (in totale 288) si trovavano lungo il perimetro. erano tutte “singole”, di forma quadrata (metri 4,75 di lato), dotate di comignolo per le esalazioni e di un piccolo “servizio”, un sedile in mattoni, che scaricava nel fossato. Porte e finestre erano sbarrate.

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In mezzo al Lazzaretto c’era un grande spazio, la “prateria”, circondato da portici di buona fattura, con colonne in granito di Baveno. https://www.youtube.com/watch?v=GB605GuYvl4

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Al centro di questo spazio circondato da mura c’era una chiesetta, voluta da San Carlo al posto di una precedente cappella, aperta su tutti gli otto lati, per permettere ai ricoverati di vedere sempre l’altare. È la chiesa di San Carlino.

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Se guardiamo con attenzione una cartina d’epoca, vediamo come accanto alla chiesa, si trovasse un palo definito “della tortura”; dieci “sbirri” e due boia erano il servizio d’ordine all’interno.

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Al di fuori del Lazzaretto, invece, si trovava un cimitero, il Foppone, con le fosse comuni per i morti di peste. Qui sorge oggi la chiesa di San Gregorio, con una cripta visitabile, che contiene lapidi di diverse epoche, successive al periodo della peste.

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In poco più di un secolo il Lazzaretto si dota di una Accettazione, due cucine, una per gli infetti e l’altra per i sospetti, un forno per il pane, due lavanderie, una stalla per il latte dei bambini. Il menù era costituito da pane, una zuppa, un secondo e vino…non male!

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Dal punto di vista sanitario c’era poco da fare contro la peste, se non la profilassi e l’isolamento. I medici, che indossavano un lungo camicione, dei guanti e una curiosa maschera con un lungo “becco” contenente erbe aromatiche, non venivano quasi mai a contatto con gli ammalati.  Questi venivano “visitati” da “barbieri” che poi riferivano e portavano eventuali cure dalla Spezieria.

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Era un mondo in chiaroscuro: si credeva agli untori e alle streghe. Il Settala, Protomedico di Milano, ovvero il principale funzionario sanitario cittadino, fece condannare al rogo per stregoneria una donna accusata di fatture contro un nobile che soffriva di mal di stomaco.

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Diversi religiosi, tra cui il cappuccino Felice Casati, davano ai ricoverati conforto umano e spirituale.

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Un affresco in via Laghetto, la “Madonna dei Tencitt”, ex voto dei carbonai, ricorda l’opera di San Carlo e riproduce, alla sua base, l’antico Lazzaretto.

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Seppure all’avanguardia, però, il Lazzaretto non riuscì mai a fronteggiare le emergenze delle epidemie che colpirono Milano. Le camere erano meno di 300 e i malati migliaia. La Prateria si riempì di tende per gli appestati, i morti accanto ai vivi. Furono costruiti altri lazzaretti di fortuna fuori le mura, ma la peste era un avversario troppo forte.

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Chi poteva fuggiva lontano, nobili e facoltosi si rifugiavano nelle case di campagna, secondo la “terapia”: Mox (subito), Longe (lontano), Tarde (a lungo). Quindi Don Rodrigo, ricoverato al Lazzaretto, in mezzo alla gente comune, è, probabilmente, un “falso d’autore”.

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La peste manzoniana del 1630 fu l’ultima per Milano. Il Lazzaretto, che durante le pestilenze era sotto il Tribunale della Sanità, tornò all’Ospedale Maggiore Ca’ Granda.

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Sanificati gli ambienti con la calce, divenne, via via, caserma, ospedale militare, persino scuola di veterinaria. Una breve parentesi in questo declino si ebbe durante il regno napoleonico, quando il Lazzaretto fu usato per parate militari e San Carlino fu trasformato in Altare della Patria.

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Il lento degrado del Lazzaretto continua senza sosta, mentre i dintorni si riempiono di belle carrozze e da piazzale Loreto arrivano i cortei asburgici.

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Viene realizzata una ferrovia sopraelevata che taglia in due il Lazzaretto, anche se gli archi del viadotto permettevano il passaggio di persone e merci.

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Nell’attuale piazza della Repubblica è costruita una delle più belle stazioni d’Europa, quasi una nuova “porta” della città. per gente venuta da lontano. Sarà poi demolita e sostituita dall’attuale Stazione Centrale in piazza Duca d’Aosta.

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Durante il Regno d’Italia il Lazzaretto si si riempie di inquilini, alcuni regolari e altri abusivi; si soppalcano le celle e si aprono attività commerciali. Ci sono macellai, falegnami, lavandai, persino una ghiacciaia, una fabbrica di fiammiferi e un tiro a segno.

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L’edificio si deteriora sempre di più e l’Ospedale Maggiore decide di venderlo. La Banca di Credito Italiano interviene e acquista tutto il Lazzaretto come investimento immobiliare, destinandolo alla demolizione, alla lottizzazione e alla realizzazione di nuovi edifici.

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Il giovane architetto Beltrami, con altri, si oppone a questa “piazza pulita”, ma ottiene solo di poter fare un accurato rilievo grafico e fotografico. Si rifarà salvando il Castello Sforzesco.

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Del Lazzaretto si conserva oggi solo quella piccola parte in via San Gregorio al 5.

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