Quattropassi per Mediolanum: il Palazzo Imperiale

Riprendiamo i nostri quattropassi per Mediolanum andando a vedere (dopo il teatro, le colonne romane e l’anfiteatro) ciò che resta del palazzo imperiale, del circo e delle sue torri.

Ci vuole molta fantasia e grande pazienza per ricostruire, come in un puzzle, il nostro passato di epoca romana. L’antica Mediolanum è, infatti, una scoperta abbastanza recente, venuta spesso alla luce dopo bombardamenti, scavi per edifici e metropolitane; i ritrovamenti continuano ancora oggi come sta accadendo, ad esempio, in corso Europa durante i lavori della nuova linea blu.

Iniziamo questo itinerario da via Brisa, alle spalle di corso Magenta. Ci troviamo di fronte ai resti del complesso imperiale romano, voluto da Massimiano negli ultimi anni del III secolo.

Questo imperatore venne associato al potere da Diocleziano, col compito di governare l’Impero d’Occidente. Spostò la capitale nella nostra città e diede inizio a un intenso sviluppo edilizio, degno di una sede imperiale, facendo costruire, tra l’altro, anche il palazzo, il circo e nuove e più ampie mura.

La costruzione di questo palazzo viene fatta risalire attorno all’anno 290, ma le fonti letterarie non sono precise per le date e anche la localizzazione esatta resta ancora un problema aperto.

Un motivo potrebbe anche essere questo: più che un unico palazzo era un quartiere con zone residenziali per l’Imperatore e la corte, altre di rappresentanza, spazi per i funzionari dello Stato, centri amministrativi e militari, luoghi di culto, di svago e benessere, terme, porticati, giardini e fontane.

Era un vero centro polifunzionale che occupava un’area piuttosto estesa tra gli odierni corso Magenta e via Torino. La toponomastica ci fornisce qualche indizio: in questa zona abbiamo la chiesa di San Giorgio a Palazzo, via Bagnera (forse le terme?), via Circo. C’è persino chi pensa che “Vetra” ricordi “Castra Vetera”, cioè un’area riservata alle truppe a difesa del quartiere imperiale.

Non sappiamo quanti resti ci siano sotto gli edifici di questa zona. Quello che vediamo oggi in via Brisa venne alla luce nei primi anni Cinquanta, in un quartiere popoloso e devastato dalle bombe del 1943.

Tra le ipotesi su cosa fossero i resti che vediamo c’è chi pensa a una zona di rappresentanza, chi invece a delle terme.

È ancora un problema in parte irrisolto, ma sappiamo che a Milano i monumenti passano, ma le pietre restano e talora “si spostano”, come è accaduto a quelle dell’anfiteatro, alle Colonne di San Lorenzo e alla Colonna del Diavolo di piazza Sant’Ambrogio.

Un altro tassello per ricostruire il quartiere imperiale è venuto alla luce durante i recenti lavori per il complesso residenziale che si trova all’angolo tra via Brisa, via Morigi e via Gorani.

I bombardamenti avevano distrutto il nobile palazzo dei Gorani. Si sono salvati solo la bella torre medievale e il portale d’ingresso, che ancora oggi possiamo vedere.

Non solo: durante i lavori di scavo sono stati rinvenuti anche reperti di epoca romana. Da un oblò nella pavimentazione, come una lente, piuttosto sporca, di un cannocchiale del tempo, vediamo i resti di un pavimento a mosaico con un bel fagiano, animale considerato di buon auspicio presso i romani. Beh, tutto sommato si è salvato dalle distruzioni di Milano parecchie volte.

La “vita” del palazzo imperiale è stata piuttosto breve. Nel 402 la capitale da Milano venne spostata a Ravenna, più sicura dalle invasioni barbariche in quanto circondata e protetta da paludi e fornita di un porto sul mare per una eventuale fuga.

Mezzo secolo dopo, nel 452, Attila giunse a Milano con le sue orde e si insediò a Palazzo.

Fu colpito da un affresco che raffigurava l’Imperatore, seduto su un trono d’oro, vittorioso sui barbari che giacevano ai suoi piedi. Da un pittore fece “capovolgere” il dipinto, facendo raffigurare se stesso sul trono, con gli imperatori ai suoi piedi nell’atto di versare oro al barbaro invasore.

Questa notizia viene riportata da un antico testo del  X secolo, il Lexicon Suidae, ma il desiderio di fotoshop è senza tempo e ci fa sorridere anche oggi.

Il declino del palazzo imperiale era iniziato e se alcuni sostengono ancora adesso che qui fu incoronato un Re longobardo, in un documento notarile del 988 si parla di un “locus ubi palatio dicitur”. Ormai i palazzo era solo memoria e solo le pietre che ritroviamo sono il nostro archivio.

I nostri quattropassi ci porteranno tra qualche giorno a scoprire ciò che resta del circo. Ci saranno molte sorprese…

A presto…

 

La Milano romana: articoli collegati

Il Cammino dei Monaci (Parte quarta – Guglielmina Boema e il Cimitero dei Monaci)

Un manoscritto del 1300 ritrovato per “caso”, come in un thriller, un’eretica sepolta a Chiaravalle, che induce alla discussione di problemi ancora attuali: oggi Passipermilano entra, in punta di piedi e con grande rispetto, in una storia molto complessa, strana, piena di sorprese e misteri, lunga sette secoli o… forse più.

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Partiamo dal manoscritto: fu ritrovato, sembra per caso, nel 1600 dal Priore della Certosa di Pavia, presso un droghiere che utilizzava i fogli per avvolgere la propria merce. Storia vera o era stato trafugato e fatto “riapparire”? Il manoscritto, comunque, composto da quattro quaderni, esiste ancora ed è conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano (A. 227 inf).

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Ambrosiana – Milano

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Il contenuto è molto scottante. Contiene, infatti, gli atti di un processo intentato nel 1300 dalla Inquisizione contro i fedeli di una donna ritenuta l’incarnazione dello Spirito Santo, sepolta e venerata alla fine del 1200 presso il Cimitero dei Monaci di Chiaravalle: Guglielmina Boema.

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Dalla vita di questa donna si sa ben poco: forse era figlia del re Ottocaro di Boemia e quindi sorella di Agnese, la Santa amica e corrispondente di Santa Chiara di Assisi.

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GUGLIELMA LA BOEMA: LA DOMINA ERETICA

Guglielmina era forse aderente al Movimento del Libero Spirito, diffuso in quel tempo nell’area culturale tedesca. Sembra fosse giunta a Milano, non si sa perchè, verso il 1260, con un figlioletto di padre sconosciuto (vedova, separata o ragazza madre?).

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(R. Capa)

Nel manoscritto non ci sono molte notizie su Guglielmina. All’Inquisizione, infatti, poco importava chi fosse, tanto più che era morta da circa vent’anni e che venivano processati i suoi fedeli e la memoria che lei aveva lasciato loro.

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Nei diversi interrogatori i fedeli parlano della sua predicazione improntata all’amore per il prossimo, dei suoi “miracoli”, delle guarigioni, della consolazione che offriva agli afflitti, della sua grande umiltà. “Io non sono Dio” soleva dire alle persone che si raccoglievano intorno a lei; ma Dio, secondo il pensiero di Guglielmina, poteva essere trovato dentro se stessi.

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Era legata all’Abbazia di Chiaravalle, tanto che, quando morì, attorno al 1280, di morte naturale, il suo corpo venne traslato con processione e rito solenne in una cappella nel cimitero  dell’Abbazia, dove veniva venerata come una santa.

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cimitero dei Monaci

I “miracoli” e le apparizioni continuavano e sempre più numeroso era il gruppo di fedeli, uomini e donne di ogni ceto sociale, anche elevato, che si riunivano a pregarla. Fra questi Andrea Saramita, un laico e, in un certo senso, teologo del movimento, e Maifreda da Pirovano, cugina di Matteo Visconti, allora in lotta con i Torriani per il potere di Milano.

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Guglielmina benedica Maifreda e Andrea

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Matteo I° della Casata Visconti

Maifreda era una suora appartenente all’Ordine degli Umiliati, che viveva presso il convento di Brera, sorto su un terreno appartenuto ai Templari, legati, come vedremo in un prossimo articolo, all’Abbazia di Chiaravalle. D’altra parte “…i Templari c’entrano sempre…” (Umberto Eco).

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Le donne, in questo movimento, avevano una grande importanza, anche liturgica, tanto che Maifreda, nella Pasqua del 1300, “celebrò” la Messa, come vicario di Guglielmina, davanti ad un grande numero di Guglielmiti o Figli dello Spirito Santo. Era troppo: l’Inquisizione intervenne, interrogò, torturò, condannò al rogo il Saramita e Maifreda, accusati, assieme agli altri fedeli, anche di orge e atti impuri.

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Non solo: fece disseppellire e bruciare sul rogo anche i resti di Guglielmina, da santa diventata eretica. Stranamente, invece, i Monaci di Chiaravalle non vennero implicati in questo processo.

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Vinse l’Inquisizione? Risposta molto difficile. Una Chiesa Guglielmita esiste tuttora con donne “sacerdote”, come in altre confessioni; il ricordo di Maifreda continua nella figura della Papessa dei Tarocchi Viscontei.

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gioco dei tarocchi

Una tradizione, inoltre, indica nella Madonna con le Corna del Foppa, nella Cappella Portinari di Sant’Eustorgio, la “presenza” di Guglielmina, proprio nell’antica casa degli inquisitori.

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Non solo: la figura di Guglielmina è ancora oggetto di studio. Alcuni la vedono protagonista di un’eresia al femminile.

Fai clic per accedere a Guglielma_e_Maifreda_Luisa_Muraro.pdf

La “divinizzazione” di Guglielmina potrebbe farci pensare al “genere” di Dio, se Dio sia anche “Madre”. “… noi siamo oggetti da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre.” (Papa Luciani, Giovanni Paolo I).

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Lo Spirito Santo viene rappresentato in molti modi (colomba, fiammella,…), ma solo in certe, rarissime, raffigurazioni ha sembianze femminili, col viso rosso, come quello dei dipinti di Guglielmina.

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chiesa di S. Giacomo – Urschalling, Baviera

Da parte nostra, ci siamo recati a visitare il piccolo Cimitero dei Monaci presso l’Abbazia di Chiaravalle, dove si trova ancora la cappella di Guglielmina. Questo Cimitero è accessibile solo occasionalmente e con visite guidate.

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Uno studioso di metà Ottocento, Michele Caffi, aveva riportato una riproduzione dell’affresco che decorava la cappella, così come quella di un dipinto che si trova a Brunate, nel comasco, riguardante le vicende di Guglielmina.

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Guglielmina è ritratta col volto più scuro (rosso?)

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chiesa di S. Andrea – Brunate

Ecco cosa rimane oggi dell’affresco di Chiaravalle.

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Ci aspettava un’altra sorpresa: davanti alla cappella di Guglielmina si trova una tomba abbastanza recente: è quella di Raffaele Mattioli, il banchiere, amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana, morto nel 1973, che aveva chiesto ed ottenuto di essere sepolto proprio davanti a questa cappella.

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Non solo: della tomba faceva parte anche una statua di angelo, opera di Giacomo Manzù (1975). Le sorprese non sono finite: questa statua, un angelo giovane ed enigmatico, senza le ali, si trova ora all’interno dell’Abbazia e mostra una metà femminile e una maschile.

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Sul basamento un’epigrafe non convenzionale: invece di “resurrexit” c’è scritto “exurrexit”.

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La statua, posta nel transetto di sinistra, dove sono affrescate scene di inaudita violenza di cui sono vittime alcuni martiri, sembra custodire, solitaria, l’entrata del piccolo cimitero dei Monaci e suggerire qualcosa di profondo e di misterioso.

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A presto…

Il Cammino dei Monaci: itinerario di cultura, arte, verde e… buon cibo (Parte prima)

“…A Milano non c’è niente…”, “…Milano è solo grigia e non c’è verde…”. Quante volte abbiamo sentito queste e altre tiritere di luoghi comuni? Passipermilano propone di visitare in questo itinerario alcuni  “luoghi comuni” per vedere quali luoghi reali ci offra invece la nostra città anche in periferia.

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Parco della Vettabbia – via Corrado il Salico

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Abbazia di Chiaravalle

Iniziamo in questo incontro un percorso molto “sconosciuto”, ma ricco di cultura, arte, verde, spiritualità, storia, leggenda e qualche assaggio di buon cibo: il Cammino dei Monaci.

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Lo si può fare a piedi, di corsa, in bici, con mezzi privati o pubblici (M3 fermata Corvetto e bus 77 direzione Chiaravalle).

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ciclabile – via San Dionigi

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bus 77 verso Chiaravalle

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Il Cammino, o la Valle, dei Monaci inizia al Parco delle Basiliche, tra San Lorenzo e Sant’Eustorgio, dove nasce la Vettabbia e, seguendo il suo corso, arriva a Melegnano.

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La Vettabbia è una delle tante rogge della nostra città, è di Porta Ticinese, come la povera Rosetta; nasce infatti dalla confluenza della Vetra col Seveso, appunto in piazza Vetra.

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Nella prima parte il suo corso è coperto, ma possiamo vedere le sue acque limpide ancora in diversi punti di Milano Sud. Eccone alcuni:

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Vettabbia in via Broni

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papere in via Broni

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Vettabbia in via Corrado il Salico

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Vettabbia in via dei Fontanili

Grazie anche a questa roggia navigabile, i monaci del Tardo Medioevo portavano in città prodotti agricoli provenienti dalle zone bonificate e divenute fertili intorno alle Abbazie.

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Vettabbia in via dei Fontanili

In questo nostro cammino vedremo un territorio antico, ma vivo e vitale; ci fermeremo presso un’antica chiesetta con memorie paleocristiane, sosteremo presso le Abbazie di Chiaravalle e di Viboldone, visitando persino un vecchio mulino alle spalle di un noceto, tra erbe officinali. Vi parrà strano, ma tutto questo è a Milano, poco più in là di piazzale Corvetto.

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Chiesetta di Nosedo

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Abbazia di Chiaravalle

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Abbazia di Viboldone

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Chiaravalle – “Giardino dei Semplici”

Lasciamo a ciascuno di voi organizzare il percorso da piazza Vetra fino a corso di Porta Romana, visitando le chiese di San Nazaro, San Calimero e Santa Maria del Paradiso, fino a giungere a piazzale Corvetto.

Piazza San Nazaro 1

San Nazaro

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San Calimero

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Santa Maria del Paradiso

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viabilità in piazzale Corvetto

Diamoci appuntamento virtuale all’inizio di via San Dionigi 6, vicino alla grande statua del Cristo Redentore, affettuosamente chiamato in dialetto el Signurun. Siamo in periferia in mezzo a case di ringhiera e a palazzi di edilizia popolare.

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La statua, fatta in graniglia e sabbia del Ticino con polveri di cemento, non è un’opera d’arte. Per di più le hanno dato un improbabile colore “giallo Milano”, come è anche il nostro risotto con lo zafferano.

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Da dove viene questa statua? Secondo una leggenda el Signurun era stato trovato nella Vettabbia, che arrivava vicino alle case.

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foto d’epoca

Per ricordare questo ritrovamento nelle acque è stato posto su una terrazza, come la polena di una nave. Secondo altri, invece, la statua era stata commissionata, ma non ritirata e un capomastro se l’era portata via e messa a vegliare sulla casa dove viveva.

Nel corso del tempo la statua ha perso la mano destra benedicente in un “incidente sul lavoro”. Infatti è stata colpita da alcuni operai che stavano installando un palo della luce.

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Dove sia finita la mano non si sa, ma a noi piace iniziare questo cammino alla ricerca di un pezzetto della nostra storia sotto questa statua, che benedice, da tanto tempo, chi entra o esce da Milano. Proseguite ora lungo la via San Dionigi fino all’incrocio con viale Omero.

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A presto…

Un “noir” nella Milano di inizio Seicento

Se vi trovate nella zona del Lazzaretto, magari seguendo il nostro itinerario (bellissimo e sconosciuto, fidatevi!!!), guardate l’angolo di cielo sopra via Settala.

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C’è una storia antica, oscura e terribile, da conoscere, per chi voglia uscire da Google Maps e scavare nella memoria della nostra città.google-maps-3

Lui è quel Lodovico Settala al quale è stata dedicata la via. Era il Protomedico, cioè il più alto funzionario sanitario pubblico di Milano, uomo stimato, potente, un’autorità del suo tempo. Stava indagando sul legame tra ambiente e peste, in un periodo in cui si credeva che questa malattia fosse causata dagli untori.

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Lei, Caterina Medici, senza “de” (non apparteneva alla nobile casata fiorentina) era nata a Broni, nel Pavese, figlia di un maestro.

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La ragazzina aveva imparato a leggere, a scrivere e forse molto altro; si sposò a 13 anni con un uomo violento che la picchiava e la faceva prostituire.

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Il marito morì dopo pochi anni. La ragazza andò a servizio, cambiando molti padroni, passando da osterie a case nobili o di ufficiali. Non era bella, ma “carnosa e di ciera diabolica”, come scrissero alcuni suoi contemporanei, e molto intelligente.

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Un certo capitano Squarciafico, dal quale lavorava, le fece fare tre figlie, di cui due riconosciute. Non sappiamo se fosse una storia d’amore, ma il Vescovo di Casale Monferrato, città dove lavorava, mise fine alla loro unione di fatto, perchè faceva scandalo. Non è un argomento solo di quattro secoli fa, così lontano da noi…

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La donna fu allontanata senza le figlie e, infine, andò a servizio a Milano presso un nobile, Luigi Melzi. Il nuovo padrone, sessantenne, era solo, con figli grandi; soffriva di dolori allo stomaco e di melanconia.

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I grandi medici di Milano, tra cui il Settala, che l’avevano in cura, non riuscivano a curare la gastralgia, mentre la melanconia la curava Caterina.

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Il nobile le “faceva visita” spesso e trovava conforto alla sua solitudine. Questo insospettì non poco i figli, che temevano per la nuova vita del padre… e… per la loro eredità.

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Il caso condusse a casa Melzi un  certo capitano Vacallo, che aveva conosciuto in precedenza Caterina. Il capitano era convinto che la giovane donna avesse usato contro di lui dei filtri d’amore in combutta con un’altra donna che avrebbe voluto farlo innamorare.

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Ed ecco l’accusa: Caterina era una strega che stava usando con il Melzi sortilegi e filtri magici d’amore, i quali causavano anche i violenti dolori gastrici.

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Davvero una bella badante doveva usare filtri per far innamorare un uomo anziano, lasciato solo?

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Il figlio e le due figlie suore del Melzi denunciarono la donna, che venne messa sotto processo. Ci furono molti testimoni, tra i quali anche il Settala, cui, forse, non parve vero di poter attribuire a Caterina l’insuccesso delle proprie cure.

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Caterina non negò mai di essere una strega, e venne torturata, tenagliata e condannata al rogo in piazza Vetra il 4 marzo 1617. Il Melzi le sopravisse di altri otto anni.

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Di questa storia terribile parlarono il Verri, il Manzoni e, in tempi più recenti, Sciascia. Vengono messi sotto accusa la Giustizia, la Società, la superstizione, l’avidità.

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La “fede” nella stregoneria aveva accomunato di fatto vittima e carnefice, accusatore e accusata: la medicina ufficiale credeva nelle streghe quanto Caterina.

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E se Caterina fosse stata davvero una “strega” a conoscenza di un sapere antico? Ogni sapere ha i suoi sacerdoti, i suoi riti, le sue “magie” scientifiche in qualsiasi tempo…

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C. Barnard – primo trapianto di cuore

Morte di una “lucciola” al Ticinese- (Tanto tempo fa) – Parte Seconda

Torniamo alla notte del 27 agosto al Carrobbio.

La versione ufficiale

Alcuni giovani, che recavano disturbo alla quiete pubblica e che si erano “ribellati” agli ordini degli agenti di “circolare”, vengono arrestati. Una giovane prostituta si suicida ingerendo pastiglie di sublimato corrosivo: è la Rosetta.

La Rosetta

Tutti i giornali si allineano a questa versione dei fatti, fornita dalla polizia: in poche righe viene riferito questo piccolo fatto di cronaca.

La controinchiesta dell’Avanti

Già il 28 l’Avanti esplode con il titolo:

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Il linguaggio del giornale cambia: la “prostituta” diventa “una giovane canzonettista”, gli agenti si trasformano in “poliziottaglia” e ci si chiede se una sola pastiglia, seguita da lavanda gastrica, possa uccidere.

L’Autorità Giudiziaria e la Questura aprono immediatamente due inchieste e ordinano l’autopsia della vittima.

Avanti  29 agosto

Come in una sorta di Quarto Grado inizio secolo, i giornalisti dell’Avanti scavano nell’accaduto, cercano testimoni, collegano fatti, confrontano dati, interpellano esperti e…i conti non tornano.

Non ci furono solo schiamazzi, ma, in quella notte violenta al Carrobbio, fecero la comparsa le daghe, furono distribuite piattonate dagli agenti (che erano in numero molto superiore a quello dei disturbatori), una delle quali colpì violentemente al petto la Rosetta. Gli uomini furono arrestati, le donne lasciate sul campo di battaglia.

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Sempre seguendo le testimonianze raccolte, poco dopo la scena si sposta in piazza Vetra. La Rosetta, soccorsa dal fratello Arturo, che si stava recando al lavoro, e da altri due giovani, viene accompagnata in piazza Vetra, per andare dalla sorella.

la Stretta dei Vetraschi in piazza Vetra

Come in un agguato, alcuni agenti, già presenti al pestaggio del Carrobbio, si lanciano sul gruppetto, infierendo in particolare su Arturo. Rosetta urla, cerca di difendere il fratello, per di più claudicante, ma questo scatena il branco degli agenti che “si scagliano, ormai accecati da una brutalità cieca e bestiale(l’Avanti, 28/8) a calci e pugni sulla ragazza.

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Rivoltella in pugno, gli agenti intimano a tutti i testimoni di rientrare a casa e di chiudere le finestre.

Locali notturni finestre

Fra i testimoni, che restano presenti come in un coro, c’è anche chi trova il coraggio di denunciare, sulle pagine del giornale, quanto visto quella sera, indicando anche il proprio nome e cognome. Saranno sentiti dalle autorità? Subiranno ritorsioni? Nulla si sa di tutto questo.

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Il presunto depistaggio ed il tentato suicidio

I poliziotti riportano poi, di peso, la Rosetta al Carrobbio: perchè? Forse per depistare le indagini e “nascondere” l’agguato di piazza Vetra?

In questo momento la Rosetta prende (o finge di prendere) le pastiglie di veleno: forse per farsi portare in ospedale, invece che in Questura, e salvarsi dal branco?

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Il Musti

È il poliziotto “cattivo”: viene accusato, tempo prima, dalla Rosetta, davanti ai giudici, di minacce continuate, è presente ai pestaggi, porta la ragazza in ospedale, al reparto Tentati Suicidi.

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C’era un motivo nascosto nel suo odio verso la Rosetta?

– È il poliziotto deviato, venuto da Napoli, affiliato, forse alla Mano Nera, di cui parlano alcune ballate popolari?

– Voleva vendicarsi delle accuse della Rosetta davanti ai giudici?

– C’è chi sostiene che ne fosse pazzamente innamorato (forse anche suo amante); dopo essere stato lasciato, voleva fargliela “pagare cara”?

– Forse avrebbe voluto diventare il protettore della lucciola, che stava diventando famosa e, respinto, “gliela aveva giurata”?

 Di lui sappiamo che venne trasferito a Genova e le sue tracce si perdono con i suoi segreti.

Un delitto irrisolto

 L’autopsia indicò nell’avvelenamento la causa della morte e segnalò diverse lievi abrasioni sul corpo della vittima

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– Perché fu impedito ai familiari ed agli amici di vedere il corpo della ragazza fintanto non fosse stato “preparato”? Una testimone, di cui si riporta nome e cognome, vide, di nascosto, diverse vistose ecchimosi sul cadavere.

– Perchè la Rosetta avrebbe detto alla sorella, prima di morire, “mi hanno ammazzata”?

– Quante furono in realtà le pastiglie ingerite? Erano sufficienti a causare la morte, tanto più che le venne praticata subito la lavanda gastrica? Il numero delle pastiglie varia, secondo le fonti, da “alcune” a “tre”, di cui due sputate. Ci furono, si chiede un medico intervistato dall’Avanti, altri sintomi di avvelenamento? Il sublimato corrosivo, trovato nell’autopsia, poteva essere quello che la Rosetta assumeva abitualmente per curare la sifilide?

Le Autorità richiesero un supplemento di indagini, ma dei nuovi risultati non si seppe più nulla.

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I funerali della Rosetta

Ai suoi funerali partecipò una grande folla con tutta la malavita del Ticinese. Quattro erano i carri pieni di fiori per la giovane canzonettista.

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Il funerale della Rosetta da Milano noir (mostra 2015)

In questi cento anni la storia della Rosetta è diventata una sorta di leggenda che ha ispirato diversi artisti, da Sciascia ai vari interpreti della ballata (Milly, I Gufi, Mattia Donna, ecc.).

https://www.youtube.com/watch?v=VJJbhbl6WSA

Ancora oggi la figura della giovane prostituta di piazza Vetra, morta non ancora diciottenne, interessa, intriga e, forse, suscita riflessioni anche su delitti del nostro tempo e fatti di cronaca tristemente noti.

Da noi una rosa per lei.

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Morte di una “lucciola” al Ticinese – (Tanto tempo fa) – Parte Prima

Perchè una piccola lucciola è diventata negli anni una specie di leggenda milanese? Cosa ha contribuito a far crescere il fascino del mistero intorno alla sua figura?

La scena del delitto

Siamo sul finire dell’agosto 1913, nel popolare rione Ticinese, terra di miseria, degrado e malavita, ma anche vivace e ricco di senso di solidarietà e appartenenza.

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Le notti dovevano essere ancora calde e piacevoli se il Carrobbio il 27 agosto “si era trasformato in una specie di caffè-concerto: alcune donnine, più allegre del solito, e alcuni giovinastri, padroni del campo, cantavano a squarciagola, turbando il sonno dei pacifici cittadini. Dall’Inno a Tripoli…e il bel suol d’Amore si era giunti alle canzoni oscene e ai richiami della malavita” (l’Avanti, 27/8/1913).

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Qui inizia il dramma della Rosetta, una giovane ragazza al centro di un grave fatto di cronaca nera dai contorni rimasti oscuri. Quali furono le cause della sua morte? Fu un suicidio o fu vittima della brutalità di alcuni agenti di polizia?

Ancora oggi molti sono i dubbi. Vediamo di recuperare un po’ delle tessere che potranno servire a ciascuno di noi per comporre il proprio puzzle.

La Rosetta

Nasce intorno al 1895, in una famiglia numerosa (nove figli?) con padre facchino e madre forse alcolizzata, ma certamente sciagurata se, come sembra, si vantava di aver spinto la Rosetta, allora tredicenne, a “frequentare” un ricco signore.

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dal film “Giovane e bella”

La sua biografia è molto scarna: “Elvira Rosa Andressi (questo il suo nome) era una povera ragazza del popolo, troppo presto vinta dalle tentazioni del lusso e, forse, del vizio. Ma, tuttavia, giovanissima e molto bella, volle tentare di sottrarsi al mondo equivoco nel quale era caduta: non, forse, per redimersi, ma certo per non precipitare, ogni giorno di più, nella voragine dei bassifondi.” (l’Avanti, 28/8).

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“Molta grazia, molta verve, una graziosa voce” (ibidem, 28/8):questo era quello che aveva la Rosetta per vivere la sua vita.

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In pochi anni (muore non ancora diciottenne) conosce un merciaio di via Torino, sposato e con tredici figli, che le “vende” calze e golfini in cambio delle più belle notti d’amore della sua vita

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Incontra  un delinquente della Compagnia del Fil de Fer, Attilio Orlandi, detto Butterin, uomo alto e grassoccio  ma elegante, borsaiolo sui treni e protettore di lucciole, con il quale va a vivere.

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L’Orlandi viene poi accusato di aver partecipato al furto nella gioielleria Archenti di piazza Duomo e, come complice, viene coinvolta anche la Rosetta.

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In questa circostanza, la Rosetta sperimenta i modi intimidatori della polizia e, soprattutto, quelli di un certo Musti, brigadiere, forse meridionale, che entrerà prepotentemente nella vita e nella morte della ragazza.

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Durante il processo, dal quale uscirà completamente scagionata (e a quei tempi non era certo facile per una lucciola), accusa, davanti ai Giudici, il Musti di averla più volte minacciata: “Lei è quel signore che avrebbe voluto condurmi senza perchè in guardina…Lei mi ha minacciata tutte le volte che mi ha incontrata” (ibidem, 30/8).

Intanto la ragazza, che secondo la ballata riportata nell’articolo “…battea la colonnetta…” (forse un tratto di marciapiede o, più probabilmente, un’osteria con questo nome), fa carriera e diventa Rosa Woltery, una cantante di Cafè Chantant e di teatro, come il San Martino, in Galleria del Corso a Milano, dove conosce, forse, Petrolini; si esibisce anche al Salone Margherita a Roma e l’attende uno spettacolo a Genova.

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Ha affittato, nel frattempo, un piccolo appartamento, dove riceve “visite”; ma il destino e il Musti, ancora lui, l’attendono in una calda notte d’estate al Ticinese.

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Continua… 

Il Parco delle Basiliche – (dove)

Costeggiamo il fianco di Sant’Eustorgio, così bello ed articolato, e raggiungiamo il Parco delle Basiliche, lasciando alle nostre spalle corso di Porta Ticinese.

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Le due Basiliche, Sant’Eustorgio e San Lorenzo, sono quasi più belle viste da dietro perchè le facciate hanno subito molti ritocchi e interventi mentre il prato un po’ mosso, che le unisce alle spalle, lascia spazio alla loro “frastagliata” architettura di absidi e cappelle.

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Anche piazza Vetra, oggi, fa parte di questo parco. Posta alle spalle di San Lorenzo, non conserva nulla del suo antico aspetto, specialmente dopo i bombardamenti e le demolizioni post-belliche.

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Via le vecchie case, covo di malavita e di poveri diavoli, via anche i conciatori di pelli, che lavoravano in questa zona.

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Persino la statua di San Lazzaro, in piazza Vetra fin dal 1600, è stata spostata e messa ora quasi a vegliare su un campo giochi all’interno del parco.

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Il nome della piazza, Vetra, che deriva forse da castra vetera, è duro, aspro, tagliente. Questo è stato il regno dei “vetraschi”, tintori e conciatori di pelli, che utilizzavano le acque correnti per lavorare le pelli animali con solventi a base di urina.

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Era un luogo maleodorante, con gli odori della morte; ma ben altre morti sono state inflitte in piazza Vetra. Qui arsero le spoglie di Guglielmina Boema ed il corpo vivo della sua seguace Manfreda; poi le prime streghe di Milano come Sibilla e Pierina nel 1390.

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Dopo di loro un numero imprecisato di uomini e donne, accusati di malefici, incontri diabolici ed eresia, ricevette la morte come liberazione dalle torture.

Anche il Cinquecento vedrà stragi e supplizi in piazza Vetra e davanti a Sant’Eustorgio: Giovannina, Simona, Lucia…; i roghi si estendono in tutta la Lombardia.

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Nel Seicento: Isabella, Doralice, Antonia…viene persino redatto il Compendium Maleficarum, ad opera di un frate del convento di Sant’Eustorgio.

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Finirono inoltre tra le fiamme Anna Maria e Margherita; l’ultima “strega” arsa a Milano fu Caterina, della quale ci è giunta la storia che racconteremo; siamo nel 1617.

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Non solo roghi di streghe: nel 1630 ci fu l’orrendo supplizio di Gian Giacomo Mora e del suo presunto complice, Guglielmo Piazza, accusati di aver diffuso la peste a Milano e giustiziati pubblicamente.

L'esecuzione di GG Mora e degli altri untori in Piazza alla Vetra

Per saperne di più:

https://www.youtube.com/watch?v=H4QaCzXafgk

In questo tremendo numero di condannati ci furono uomini e donne, ma il loro nome e la relativa documentazione furono distrutti col fuoco nel 1788 nel cortile di Santa Maria delle Grazie. Purtroppo le esecuzioni capitali continuarono…

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Il Parco delle Basiliche, ora dedicato a Papa Giovanni Paolo II, appare verde, ben tenuto, invitante, ma la cancellata che lo protegge dal popolo della movida e dagli spacciatori, che fino a qualche tempo fa qui imperversavano, non può far niente per tenere lontano il passato con i roghi, gli strazi delle torture e le pene capitali.

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Godiamoci il dolce Parco delle Basiliche, ma un piccolo pensiero, qualche volta, voli più in alto della cima degli alberi.

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