San Biagio e… il panettone! Una festa tradizionale di Milano

In piena epidemia di influenza, mal di gola e raffreddore una antica tradizione milanese ci suggerisce, per il 3 febbraio, una sorta di “vaccinazione” a base di… panettone.

Il 3 febbraio si festeggia San Biagio, il medico armeno, vescovo di Sebaste, che subì il martirio agli inizi del Trecento d.C. Si racconta che una donna disperata, gli avesse portato il figlio che stava soffocando per una lisca di pesce che gli si era conficcata in gola. Biagio benedisse del pane e lo fece mangiare al bambino, salvandolo. Medicina e Fede avevano compiuto il miracolo e da allora il Santo protegge dal mal di gola.

Il culto di San Biagio, uno dei 14 Santi Ausiliatori che aiutano, cioè, in particolari malattie, è molto diffuso nel mondo cristiano. In particolare Milano è devota da secoli a questo Santo, già venerato nell’antica Basilica di Santa Tecla e con una statua sul Duomo ricostruita dopo la guerra.

Il 3 febbraio è usanza ricordare il “miracolo della gola” mangiando un pezzetto del panettone aperto durante il pranzo di Natale e conservato fino a questo giorno.

Un’altra tradizione legata a questo giorno è quella della benedizione della gola impartita dal sacerdote che incrocia davanti al collo dei fedeli, invocando San Biagio, due candele accese, benedette alla Candelora (2 febbraio) e legate da un nastro rosso.

In questo periodo le giornate cominciano ad essere più lunghe e miti (Quando vien la Candelora dall’inverno siamo fora). Le candele benedette il 2 febbraio (ricorrenza della Presentazione di Gesù al Tempio) sono l’immagine della vittoria della Luce sulle tenebre unendo simbolicamente la ricorrenza di San Biagio al Natale.

Un aneddoto curioso e poco conosciuto è riportato, in un suo libro, da Francesco Ogliari, cultore di antiche storie di vita milanese.

Era il 3 febbraio 1888 e le signore andavano in Duomo per ricevere la benedizione di San Biagio anche perchè era impartita da un bel monsignore che aveva molto successo tra le milanesi dell’epoca.

Fra queste signore bene, si era messa in fila anche una bella ragazza, la “Rizzolin” che “praticava il mestiere”, come la Rosetta anni dopo, a Porta Ticinese. Le signore si scostavano indispettite aspettando che il sacerdote scacciasse la peccatrice. Il monsignore, invece, le pose sul collo le candele benedette e, invocando per lei la benedizione, le disse sorridendo: “per intercessione Beati Biasii, tirett via de lì, se nò te basi!”.

La storia della “Rizzolin” termina qualche anno dopo ad Adua, dove era andata come infermiera col corpo di spedizione del Generale Baratieri. Chissà se San Biagio l’avrà accolta lassù sorridendo anche lui.

Per la festa di San Biagio a Milano c’è la tradizione di ricevere in regalo un panettone acquistandone un altro.

Si racconta che una donna avesse portato ad un frate un po’ goloso un panettone da far benedire per San Biagio. Il frate poco alla volta lo aveva mangiato senza pensarci. Quando, però, giunse il 3 febbraio, si ricordò del panettone e, preso dalla mortificazione e dal dispiacere, pregò il Santo di aiutarlo. Quando la donna si presentò a ritirare il proprio panettone, ne trovò uno grande il doppio… e questo regalo continua ancora oggi.

A tutti Buon San Biagio e ricordatevi di mangiare un pezzetto del panettone di Natale, fa bene alla gola e… ti prende per la “gola”.

A presto…

Il Cammino dei Monaci: itinerario di cultura, arte, verde e… buon cibo (Parte prima)

“…A Milano non c’è niente…”, “…Milano è solo grigia e non c’è verde…”. Quante volte abbiamo sentito queste e altre tiritere di luoghi comuni? Passipermilano propone di visitare in questo itinerario alcuni  “luoghi comuni” per vedere quali luoghi reali ci offra invece la nostra città anche in periferia.

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Parco della Vettabbia – via Corrado il Salico

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Abbazia di Chiaravalle

Iniziamo in questo incontro un percorso molto “sconosciuto”, ma ricco di cultura, arte, verde, spiritualità, storia, leggenda e qualche assaggio di buon cibo: il Cammino dei Monaci.

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Lo si può fare a piedi, di corsa, in bici, con mezzi privati o pubblici (M3 fermata Corvetto e bus 77 direzione Chiaravalle).

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ciclabile – via San Dionigi

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Il Cammino, o la Valle, dei Monaci inizia al Parco delle Basiliche, tra San Lorenzo e Sant’Eustorgio, dove nasce la Vettabbia e, seguendo il suo corso, arriva a Melegnano.

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La Vettabbia è una delle tante rogge della nostra città, è di Porta Ticinese, come la povera Rosetta; nasce infatti dalla confluenza della Vetra col Seveso, appunto in piazza Vetra.

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Nella prima parte il suo corso è coperto, ma possiamo vedere le sue acque limpide ancora in diversi punti di Milano Sud. Eccone alcuni:

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Vettabbia in via Broni

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papere in via Broni

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Vettabbia in via Corrado il Salico

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Vettabbia in via dei Fontanili

Grazie anche a questa roggia navigabile, i monaci del Tardo Medioevo portavano in città prodotti agricoli provenienti dalle zone bonificate e divenute fertili intorno alle Abbazie.

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Vettabbia in via dei Fontanili

In questo nostro cammino vedremo un territorio antico, ma vivo e vitale; ci fermeremo presso un’antica chiesetta con memorie paleocristiane, sosteremo presso le Abbazie di Chiaravalle e di Viboldone, visitando persino un vecchio mulino alle spalle di un noceto, tra erbe officinali. Vi parrà strano, ma tutto questo è a Milano, poco più in là di piazzale Corvetto.

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Chiesetta di Nosedo

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Abbazia di Chiaravalle

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Abbazia di Viboldone

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Chiaravalle – “Giardino dei Semplici”

Lasciamo a ciascuno di voi organizzare il percorso da piazza Vetra fino a corso di Porta Romana, visitando le chiese di San Nazaro, San Calimero e Santa Maria del Paradiso, fino a giungere a piazzale Corvetto.

Piazza San Nazaro 1

San Nazaro

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San Calimero

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Santa Maria del Paradiso

P. Corvetto

viabilità in piazzale Corvetto

Diamoci appuntamento virtuale all’inizio di via San Dionigi 6, vicino alla grande statua del Cristo Redentore, affettuosamente chiamato in dialetto el Signurun. Siamo in periferia in mezzo a case di ringhiera e a palazzi di edilizia popolare.

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La statua, fatta in graniglia e sabbia del Ticino con polveri di cemento, non è un’opera d’arte. Per di più le hanno dato un improbabile colore “giallo Milano”, come è anche il nostro risotto con lo zafferano.

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Da dove viene questa statua? Secondo una leggenda el Signurun era stato trovato nella Vettabbia, che arrivava vicino alle case.

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foto d’epoca

Per ricordare questo ritrovamento nelle acque è stato posto su una terrazza, come la polena di una nave. Secondo altri, invece, la statua era stata commissionata, ma non ritirata e un capomastro se l’era portata via e messa a vegliare sulla casa dove viveva.

Nel corso del tempo la statua ha perso la mano destra benedicente in un “incidente sul lavoro”. Infatti è stata colpita da alcuni operai che stavano installando un palo della luce.

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Dove sia finita la mano non si sa, ma a noi piace iniziare questo cammino alla ricerca di un pezzetto della nostra storia sotto questa statua, che benedice, da tanto tempo, chi entra o esce da Milano. Proseguite ora lungo la via San Dionigi fino all’incrocio con viale Omero.

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A presto…

La Torre e il Museo Branca: una storia tutta milanese

La Torre Branca del Parco Sempione ci racconta una storia di imprenditorialità e cultura tutte meneghine.

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Questo traliccio d’autore, di 108,6 metri, venne costruito nel 1933 dagli architetti Cesare Chiodi e Gio Ponti, nel clima di una Milano in espansione industriale.

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Fu realizzata in soli 68 giorni lavorativi, utilizzando tubi di acciaio speciale della Dalmine, flange e bulloni; ha una base esagonale di 6 metri per lato, che si stringe a 4,45 a 100 metri d’altezza. È insieme leggerezza e solidità, novità ed eleganza, tradizione e innovazione, come nel DNA di Milano.

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Poi cadde in disgrazia e, diventata inagibile, venne chiusa al pubblico nel 1972. Nel 2002 la famiglia milanese Branca, nota per i liquori, tra cui il celebre Fernet, intervenne per renderla di nuovo accessibile e restituirla alla città. La Torre Branca, ormai conosciuta col nome dell’azienda, è un esempio tangibile di quel novare serbando, che è stato, dall’Ottocento, il motto della ditta.

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un prodotto di oggi col vecchio motto

La storia di questa industria, tutta milanese, che ha compiuto 170 anni nel 2015, si può ripercorrere visitando la “Collezione Branca” ospitata in oltre 1000 mq all’interno del complesso di via Resegone, vicino a piazza Maciachini, da più di un secolo sede dello stabilimento, luogo di produzione tra storia e attualità.

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La visita inizia con le immagini dei fondatori, tra i quali il capostipite, lo speziale autodidatta Bernardino Branca, la moglie, i loro figli e la nuora, Maria Scala, che molta parte ebbe nello sviluppo dell’azienda.

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Il più famoso prodotto, il Fernet, fu creato nel 1845, su ricetta ancora oggi segreta, come bevanda medicinale a base di erbe, cortecce e radici per combattere colera, malaria, febbre, dolori e spossatezza. Padre Nappi, l’allora direttore dell’Ospedale Fatebenefratelli di Porta Nuova, vicino alla sede del primo laboratorio, fu testimonial della validità del fernet per la cura del colera.

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Il fondatore utilizzò ben 27 erbe “internazionali” per formulare questo prodotto noto come Fernet-Branca e lo restituì al Mondo.

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Sull’origine del termine “Fernet” aleggia un’aria di mistero: secondo alcuni il Sig. Fernet sarebbe stato un farmacista svedese che avrebbe collaborato alla formulazione dell’elisir, continuando a berlo fino a ben 104 anni, esempio vivente dei benefici del prodotto.

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Un’altra “storia” narra, invece, di un abate francese, padre Fernet, che avrebbe messo a frutto le sue conoscenze in campo erboristico; secondo altri, ancora, fer net, che significa ferro pulito in milanese, indicherebbe il materiale utilizzato nella preparazione e, forse, si potrebbe aggiungere, la forza e la potenza pulita del liquore corroborante.

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Nella Collezione, in un grande cestone, la ruota delle spezie, sono raccolte, come in una gigantesca erboristeria, le erbe, le radici, le cortecce, gli aromi, le spezie che sono utilizzate per la produzione; tra queste c’è anche il milanesissimo zafferano.

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Sono esposti diversi manifesti pubblicitari, calendari e gadgets storici che indicano l’attenzione dei Branca per la comunicazione pubblicitaria, di alta qualità.

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Il logo, usato ancora oggi, dell’aquila che tiene tra gli artigli una bottiglia di fernet sopra il globo terrestre, ad esempio, fu firmato dal grande Leopoldo Metlicovitz, autore anche di scenografie, locandine e manifesti.

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Tra i manifesti e i calendari esposti, molto spazio è riservato a figure femminili mentre bevono il fernet, quasi un elisir nero per quote rosa.

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La nuora del fondatore, Maria Scala, diffuse questo elisir tra le signore della Milano bene.

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Infatti questo “liquore” era visto come un medicinale a base di erbe, in grado di aiutare anche in caso di malesseri femminili e curare lo spleen, quel senso di malinconia di baudelairiana memoria.

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Sappiamo dai giornali dell’epoca che anche la Rosetta, la povera “lucciola” vittima di un caso di malagiustizia, aveva bevuto un fernet prima di essere uccisa.

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fernet e Rosetta

Ai milanesi il fernet piacque subito, tanto che, nel linguaggio popolare, l’espressione “Fratelli Branca” indicava i Carabinieri, vestiti di nero, che andavano in gruppo per acciuffare (“brancare”) i malfattori.

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Proseguendo la visita vediamo le ricostruzioni di ambienti di lavoro esistenti in passato all’interno dell’azienda, quali uffici, laboratori, sartoria, falegnameria, quasi una produzione a chilometro zero.

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Punto di contatto tra ieri e oggi è la grande botte in legno di rovere di Slavonia, da 84.000 litri, la più grande d’Europa, usata ancora oggi per l’invecchiamento del brandy, altro prodotto dell’azienda. Fu portata dal vecchio stabilimento e si dovette costruirle attorno il locale che la ospita.

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La Branca, nel corso del tempo, ha acquisito anche altri marchi storici. La visita è un percorso tra botti, alambicchi, mortai antichi e moderni macchinari, tra aromi e profumi di caffè, camomilla, erbe, arance, distillati.

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Col fernet, in letteratura, si fa anche un particolare gelato: ecco la ricetta del gelato all’aglio e fernet, per sorridere ma non provare!

http://www.vivavoceonline.it/articoli.php?id_articolo=748

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Una rivisitazione d’autore propone una ricetta  del gelato all’aglio su una zuppetta di pomodoro. Per finire… ci vuole davvero un fernet!

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I protagonisti di questo museo d’impresa non sono solo reperti storici e sistemi produttivi. Lupi, lumache, rane di plastica colorata sono disseminati tra i vari ambienti, esempi di cracking art esposti in questo periodo nella collezione.

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Uscendo, non dimentichiamo di lanciare un’occhiata all’alta ciminiera tutta a colori, decorata nello stile della street art.

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Arte e produzione ancora insieme come un tempo!

La visita è gratuita e prenotabile telefonando al numero 02/8513970

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Tante sfumature di giallo

 

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A chi come Belisama viene da un altro mondo

A chi come Bianca Maria vive tante storie

A chi come la Carlina ama l’uomo sbagliato

A chi come la Rosetta resterà sempre nel cuore

A chi come “le streghe” è vittima del suo tempo

A chi come la bimba di S. Bernardino non realizza i propri sogni

A tutte le donne un augurio, un fiore e una canzone

Buon 8 marzo!

https://www.youtube.com/watch?v=Htfw_Y2Rm3s

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Morte di una “lucciola” al Ticinese- (Tanto tempo fa) – Parte Seconda

Torniamo alla notte del 27 agosto al Carrobbio.

La versione ufficiale

Alcuni giovani, che recavano disturbo alla quiete pubblica e che si erano “ribellati” agli ordini degli agenti di “circolare”, vengono arrestati. Una giovane prostituta si suicida ingerendo pastiglie di sublimato corrosivo: è la Rosetta.

La Rosetta

Tutti i giornali si allineano a questa versione dei fatti, fornita dalla polizia: in poche righe viene riferito questo piccolo fatto di cronaca.

La controinchiesta dell’Avanti

Già il 28 l’Avanti esplode con il titolo:

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Il linguaggio del giornale cambia: la “prostituta” diventa “una giovane canzonettista”, gli agenti si trasformano in “poliziottaglia” e ci si chiede se una sola pastiglia, seguita da lavanda gastrica, possa uccidere.

L’Autorità Giudiziaria e la Questura aprono immediatamente due inchieste e ordinano l’autopsia della vittima.

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Come in una sorta di Quarto Grado inizio secolo, i giornalisti dell’Avanti scavano nell’accaduto, cercano testimoni, collegano fatti, confrontano dati, interpellano esperti e…i conti non tornano.

Non ci furono solo schiamazzi, ma, in quella notte violenta al Carrobbio, fecero la comparsa le daghe, furono distribuite piattonate dagli agenti (che erano in numero molto superiore a quello dei disturbatori), una delle quali colpì violentemente al petto la Rosetta. Gli uomini furono arrestati, le donne lasciate sul campo di battaglia.

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Sempre seguendo le testimonianze raccolte, poco dopo la scena si sposta in piazza Vetra. La Rosetta, soccorsa dal fratello Arturo, che si stava recando al lavoro, e da altri due giovani, viene accompagnata in piazza Vetra, per andare dalla sorella.

la Stretta dei Vetraschi in piazza Vetra

Come in un agguato, alcuni agenti, già presenti al pestaggio del Carrobbio, si lanciano sul gruppetto, infierendo in particolare su Arturo. Rosetta urla, cerca di difendere il fratello, per di più claudicante, ma questo scatena il branco degli agenti che “si scagliano, ormai accecati da una brutalità cieca e bestiale(l’Avanti, 28/8) a calci e pugni sulla ragazza.

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Rivoltella in pugno, gli agenti intimano a tutti i testimoni di rientrare a casa e di chiudere le finestre.

Locali notturni finestre

Fra i testimoni, che restano presenti come in un coro, c’è anche chi trova il coraggio di denunciare, sulle pagine del giornale, quanto visto quella sera, indicando anche il proprio nome e cognome. Saranno sentiti dalle autorità? Subiranno ritorsioni? Nulla si sa di tutto questo.

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Il presunto depistaggio ed il tentato suicidio

I poliziotti riportano poi, di peso, la Rosetta al Carrobbio: perchè? Forse per depistare le indagini e “nascondere” l’agguato di piazza Vetra?

In questo momento la Rosetta prende (o finge di prendere) le pastiglie di veleno: forse per farsi portare in ospedale, invece che in Questura, e salvarsi dal branco?

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Il Musti

È il poliziotto “cattivo”: viene accusato, tempo prima, dalla Rosetta, davanti ai giudici, di minacce continuate, è presente ai pestaggi, porta la ragazza in ospedale, al reparto Tentati Suicidi.

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C’era un motivo nascosto nel suo odio verso la Rosetta?

– È il poliziotto deviato, venuto da Napoli, affiliato, forse alla Mano Nera, di cui parlano alcune ballate popolari?

– Voleva vendicarsi delle accuse della Rosetta davanti ai giudici?

– C’è chi sostiene che ne fosse pazzamente innamorato (forse anche suo amante); dopo essere stato lasciato, voleva fargliela “pagare cara”?

– Forse avrebbe voluto diventare il protettore della lucciola, che stava diventando famosa e, respinto, “gliela aveva giurata”?

 Di lui sappiamo che venne trasferito a Genova e le sue tracce si perdono con i suoi segreti.

Un delitto irrisolto

 L’autopsia indicò nell’avvelenamento la causa della morte e segnalò diverse lievi abrasioni sul corpo della vittima

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– Perché fu impedito ai familiari ed agli amici di vedere il corpo della ragazza fintanto non fosse stato “preparato”? Una testimone, di cui si riporta nome e cognome, vide, di nascosto, diverse vistose ecchimosi sul cadavere.

– Perchè la Rosetta avrebbe detto alla sorella, prima di morire, “mi hanno ammazzata”?

– Quante furono in realtà le pastiglie ingerite? Erano sufficienti a causare la morte, tanto più che le venne praticata subito la lavanda gastrica? Il numero delle pastiglie varia, secondo le fonti, da “alcune” a “tre”, di cui due sputate. Ci furono, si chiede un medico intervistato dall’Avanti, altri sintomi di avvelenamento? Il sublimato corrosivo, trovato nell’autopsia, poteva essere quello che la Rosetta assumeva abitualmente per curare la sifilide?

Le Autorità richiesero un supplemento di indagini, ma dei nuovi risultati non si seppe più nulla.

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I funerali della Rosetta

Ai suoi funerali partecipò una grande folla con tutta la malavita del Ticinese. Quattro erano i carri pieni di fiori per la giovane canzonettista.

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Il funerale della Rosetta da Milano noir (mostra 2015)

In questi cento anni la storia della Rosetta è diventata una sorta di leggenda che ha ispirato diversi artisti, da Sciascia ai vari interpreti della ballata (Milly, I Gufi, Mattia Donna, ecc.).

https://www.youtube.com/watch?v=VJJbhbl6WSA

Ancora oggi la figura della giovane prostituta di piazza Vetra, morta non ancora diciottenne, interessa, intriga e, forse, suscita riflessioni anche su delitti del nostro tempo e fatti di cronaca tristemente noti.

Da noi una rosa per lei.

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Morte di una “lucciola” al Ticinese – (Tanto tempo fa) – Parte Prima

Perchè una piccola lucciola è diventata negli anni una specie di leggenda milanese? Cosa ha contribuito a far crescere il fascino del mistero intorno alla sua figura?

La scena del delitto

Siamo sul finire dell’agosto 1913, nel popolare rione Ticinese, terra di miseria, degrado e malavita, ma anche vivace e ricco di senso di solidarietà e appartenenza.

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Le notti dovevano essere ancora calde e piacevoli se il Carrobbio il 27 agosto “si era trasformato in una specie di caffè-concerto: alcune donnine, più allegre del solito, e alcuni giovinastri, padroni del campo, cantavano a squarciagola, turbando il sonno dei pacifici cittadini. Dall’Inno a Tripoli…e il bel suol d’Amore si era giunti alle canzoni oscene e ai richiami della malavita” (l’Avanti, 27/8/1913).

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Qui inizia il dramma della Rosetta, una giovane ragazza al centro di un grave fatto di cronaca nera dai contorni rimasti oscuri. Quali furono le cause della sua morte? Fu un suicidio o fu vittima della brutalità di alcuni agenti di polizia?

Ancora oggi molti sono i dubbi. Vediamo di recuperare un po’ delle tessere che potranno servire a ciascuno di noi per comporre il proprio puzzle.

La Rosetta

Nasce intorno al 1895, in una famiglia numerosa (nove figli?) con padre facchino e madre forse alcolizzata, ma certamente sciagurata se, come sembra, si vantava di aver spinto la Rosetta, allora tredicenne, a “frequentare” un ricco signore.

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dal film “Giovane e bella”

La sua biografia è molto scarna: “Elvira Rosa Andressi (questo il suo nome) era una povera ragazza del popolo, troppo presto vinta dalle tentazioni del lusso e, forse, del vizio. Ma, tuttavia, giovanissima e molto bella, volle tentare di sottrarsi al mondo equivoco nel quale era caduta: non, forse, per redimersi, ma certo per non precipitare, ogni giorno di più, nella voragine dei bassifondi.” (l’Avanti, 28/8).

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“Molta grazia, molta verve, una graziosa voce” (ibidem, 28/8):questo era quello che aveva la Rosetta per vivere la sua vita.

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In pochi anni (muore non ancora diciottenne) conosce un merciaio di via Torino, sposato e con tredici figli, che le “vende” calze e golfini in cambio delle più belle notti d’amore della sua vita

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Incontra  un delinquente della Compagnia del Fil de Fer, Attilio Orlandi, detto Butterin, uomo alto e grassoccio  ma elegante, borsaiolo sui treni e protettore di lucciole, con il quale va a vivere.

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L’Orlandi viene poi accusato di aver partecipato al furto nella gioielleria Archenti di piazza Duomo e, come complice, viene coinvolta anche la Rosetta.

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In questa circostanza, la Rosetta sperimenta i modi intimidatori della polizia e, soprattutto, quelli di un certo Musti, brigadiere, forse meridionale, che entrerà prepotentemente nella vita e nella morte della ragazza.

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Durante il processo, dal quale uscirà completamente scagionata (e a quei tempi non era certo facile per una lucciola), accusa, davanti ai Giudici, il Musti di averla più volte minacciata: “Lei è quel signore che avrebbe voluto condurmi senza perchè in guardina…Lei mi ha minacciata tutte le volte che mi ha incontrata” (ibidem, 30/8).

Intanto la ragazza, che secondo la ballata riportata nell’articolo “…battea la colonnetta…” (forse un tratto di marciapiede o, più probabilmente, un’osteria con questo nome), fa carriera e diventa Rosa Woltery, una cantante di Cafè Chantant e di teatro, come il San Martino, in Galleria del Corso a Milano, dove conosce, forse, Petrolini; si esibisce anche al Salone Margherita a Roma e l’attende uno spettacolo a Genova.

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Ha affittato, nel frattempo, un piccolo appartamento, dove riceve “visite”; ma il destino e il Musti, ancora lui, l’attendono in una calda notte d’estate al Ticinese.

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Continua…