Aria di Natale 2024: altri dolci di una volta

Ci sono profumi e sapori che accompagnano da sempre il periodo natalizio che, tradizionalmente per noi milanesi, inizia il 7 dicembre con la festa del Santo Patrono, la Prima della Scala, l’accensione dell’albero in piazza Duomo e l’allegra vivacità di bancarelle e mercatini.

 

Un tempo, accanto alla Basilica di Sant’Ambrogio, si svolgeva la fiera degli “Oh Bej Oh Bej”.

 

C’era aria di festa e di gioiosa attesa; si sentivano il suono delle zampogne, il profumo delle caldarroste e dei “firùn” (le collane di castagne), il dolce sapore dei croccanti e dello zucchero filato.

 

Era l’inizio del periodo delle Feste, l’attesa del Natale. Oggi, abituati al tutto e subito (“basta un clic”), sappiamo ancora attendere e sentire la magica emozione del Natale che si sta avvicinando davanti al Presepe?

 

Facciamo rivivere qualche sapore e profumo della nostra cucina preparando alcuni dolci che sanno di castagne, di zucchero e di famiglia, mescolando sempre alla tradizione qualcosa di oggi.

La “busecchina”, ovvero castagne e latte

 

Se si volesse render più facile un po’ la preparazione, comperiamo delle castagne già sbucciate. Il profumo delle castagne inonderà comunque la nostra casa. I grandi potranno aggiungere un po’ di cognac e i bambini qualche goccia di cioccolato. Noi l’abbiamo portata in tavola nella salsiera di un vecchio servizio delle feste… ma con la panna spray.

 

Il Croccante, ovvero un crumble fantastico

La sua preparazione è così semplice che abbiamo persino fatto un po’ di fatica a trovarne la ricetta. Questa è di Luigi Veronelli, giornalista e cultore dell’enogastronomia italiana.

 

Se poi aggiungiamo alla ricetta qualche scorzetta di arancia, diventa veramente gourmet! Abbiamo sperimentato di persona un “nuovo” utilizzo del croccante. Lo abbiamo spezzettato e utilizzato come un crumble sopra una cucchiaiata di crema di mascarpone. Da WOW!!

 

Dulcis in fundo parliamo di due protagonisti delle feste: il panettone e la carsenza.

La storia ci dice che il Manzoni li adorava entrambi, accompagnandoli con una tazza di cioccolata. Sappiamo anche che la prima moglie, la tenera Enrichetta, amava la semplice carsenza e che la seconda, la più vivace Teresa, “panatonava” tutto l’anno.

 

La “carsenza”, torta di pane e avanzi

Era un tipico dolce contadino e lo facevano anche le nostre nonne utilizzando pane raffermo, ammollato nel latte e arricchito con frutta secca o fresca, uvette, pinoli… avanzati dalle Feste appena passate. Infatti era, per tradizione, il dolce del Primo dell’Anno: qualcosa di vecchio e di nuovo insieme.

 

La ricetta della carsenza, della quale abbiamo scritto lo scorso anno, è stata rivisitata dallo chef del “Don Lisander”, storico ristorante di via Manzoni, e ribattezzata col nome di “Torta Provvidenza”, in onore del nostro scrittore, riprodotto sulla confezione.

 

L’abbiamo assaggiata con alcuni amici accompagnata da una pallina di gelato alla crema e… ci è piaciuta subito! E’ una torta ricca di sapori sapienti e particolari che ne fanno un vero dolce natalizio.

 

Il Panettone, re delle Feste

Cosa raccontare ancora di questo dolce che, nato dall’idea di un garzone di cucina al tempo degli Sforza, ha conquistato il mondo?

 

Quest’anno la Veneranda Fabbrica del Duomo, simbolo della nostra Milano, propone un panettone in edizione speciale con la firma di Davide Oldani, che ha mantenuto invariata la ricetta.

 

Se poi ne avanzasse qualche fetta, perchè non passarla al “grill” con una spruzzata di Grand Marnier e una pallina di gelato? Diventa un dolce “rivisitato” e buonissimo!

 

A tutti un dolcissimo…

A presto…

Assaggi artistici di panettone

Quest’anno la nostra tradizionale “panatonata” natalizia avrà ingredienti diversi, con pensieri e dipinti di scrittori e pittori come assaggi, parole e colori come dolci uvette, la bonaria ironia del dialetto milanese come cedri canditi. E la farina? L’abbiamo trovata nel bel libro “Il panettone che è di Milano” edito dal Centro Studi Manzoniani. A tutti buon appetito dai pasticceri di Passipermilano.

 

Oh, come lieta ci accoglie oggi la tavola, inondata di luce, scintillante di insolita argenteria, Re il panettone“. Così, uno scrittore lombardo, Carlo Dossi, nel 1884 descrive il momento del pranzo natalizio.

 

Figurev poeu ‘l Natal / che tra i fest l’è la festa principal: / se sent fina tre mess, e capirii / che gh’è anca l’obblig de mangià per trii. / El men che sia l’è panatton, torron, / e rosoli e mostarda e pollinon: / e per la pitoccaja / luganeghitt, cazzoeula e gran vinaja” (Giovanni Rajberti, 1853).

 

Ospite d’onore nei pranzi natalizi è il Re Panettone a cui ancora oggi si rende omaggio con eventi e bellissime vetrine.

 

La ricetta tradizionale parla di farine scelte, lievito, burro, zucchero, uvette e pezzettini di cedro candito. Giuseppe Sorbiatti, uno chef stellato dell’Ottocento, consigliava di fare sulla cupola, durante la preparazione, un taglio a croce nel mezzo, per evitare che si formassero “molti cornetti”.

 

Ci fu anche qualcuno (ma non ricordiamo chi) che legò l’idea del taglio a croce sul panettone alla Passione, così che questo dolce, tipico del Natale, unisse simbolicamente la Nascita e la Morte di Gesù.

 

Il panettone era, ed è, un dolce natalizio trasversale e social, da condividere scambiandosi gli auguri (anche con chi non ci è troppo simpatico). Scrive Giovanni Barella (1884-1967): “Son mì, sciori!… El panatton […] / Quanti guai e quanti mal, / col suggell d’ona bottiglia, / l’ha giustaa in del moment bon / on fettin de panatton!“.

 

Non bisogna, però, esagerare coi brindisi e il panettone, secondo Emilio Gadda, viene in aiuto: “Ci sono pronte delle fette di panettone molto asciutte con le quali poter, prima di bere, pavimentare lo stomaco“.

 

C’è chi, come il Manzoni, lo “pucciava” invece nella cioccolata e chi, come la sua seconda moglie, ne aveva fatto un dolce per tutto l’anno, non solo natalizio. “Bene panatonata” aveva scritto nel suo diario dopo aver fatto colazione. C’è un che di goduriosa soddisfazione in queste parole… da rivivere tutto l’anno.

 

Anche il Foscolo ricorda il panettone alle sue fidanzate. Ad Antonietta Fagnani Arese scrive: “la scimmiotta mi fece ridere quando io andava mangiando il panettone” e, ad un’altra: “non vi è giorno nè sera che io non mi ricordi delle dolcezze della mia famiglia… la cena della Vigilia, la contentezza di mia madre… e il panettone“. Che Ugo volesse intenerire e sedurre le proprie amanti anche col panettone?

 

Dolce natalizio per eccellenza è anche simbolo di rinascita, come in questo brano di Emilio De Marchi. “La consolazione di ricevere i sacramenti aveva fatto tanto bene alla malata che il giorno del Santo Natale potè assaggiare la sua fetta di panettone nel vino bianco“.

 

Anche Dino Buzzati (che non amava il Natale) vede nel panettone, comperato alla borsa nera prima del 25 dicembre 1944, qualcosa di speciale per “un giorno diverso, esonerato dalla guerra”. Il nostro pensiero a chi vive oggi un Natale sotto le bombe o nelle difficoltà della vita.

 

Il panettone può fare anche del bene: con questa immagine Zerocalcare sostiene l’iniziativa benefica di una gastronomia giapponese a Milano, città dal coeur in man.

 

Scrive ancora il Barella “…sont el panatton, / on bonbon de cà, a la man, / che l’è bon ‘me ‘l sò Milan“.

A tutti Buon Panettone!

A presto…

Storie sottovoce di celebri fantasmi

Sottovoce riportiamo alcune strane storie che riguardano due personaggi dei quali si celebrano quest’anno importanti anniversari: i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni (22 maggio 1873) e, proprio oggi, i 100 anni dalla nascita di Maria Callas (2 dicembre 1923).

Maria Callas è stata legata alla nostra città e alla Scala, la cui stagione operistica inizia il giorno di Sant’Ambrogio, dando il via anche al periodo milanese delle festività natalizie.

Il celebre soprano fu protagonista di spettacoli di grande successo, ma venne, talvolta, anche contestata, come durante la Traviata del 1955, quando ricevette, tra i fiori che le venivano lanciati sul palco, anche un mazzo di ravanelli. Ecco un particolare del quadro di Dario Fo che ricorda l’episodio.

Per miopia o per ironia, la cantante li raccolse e ringraziò il pubblico. Sarà per vendicarsi di questo sgarbo che il suo fantasma, come si dice, si aggiri per la Scala spaventando il pubblico del loggione? O, forse non riesce a stare lontano dalle luci del palcoscenico e della nostra città?

Anche il nostro Alessandro Manzoni è al centro di due strani episodi. Il primo è legato al suo mausoleo al Cimitero Monumentale, l’altro riguarda invece il suo monumento in piazza San Fedele.

Si racconta che, quando nel 1958, si stavano effettuando i lavori per collocare la tomba dello scrittore sul basamento realizzato da Giannino Castiglioni nel Famedio del Monumentale, il corpo imbalsamato dello scrittore apparve di un fosforescente color verde. Senz’altro ciò era dovuto alla rifrazione del cristallo sulla bara…

Anni prima, la statua dello scrittore in piazza San Fedele era rimasta miracolosamente intatta dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Una rivincita del suo spirito, forse, sulla caduta fatale dai gradini della chiesa, che lo aveva portato alla morte?

La nostra misteriosa città non finisce mai di stupirci, neanche con le celebrità che non riescono a starne lontane trasformandosi in fantasmi.

A presto…

Dolci natalizi in Casa Manzoni

Dopo Casa Manzoni, cerchiamo di conoscere i suoi abitanti anche attraverso i dolci natalizi che amavano: due mogli (Enrichetta e Teresa) e due dolci diversi (la carsenza e il panettone), Alessandro con la cioccolata come comfort food e Giulia, la madre dello scrittore, la vera padrona di casa di via Morone.

 

Se il ritratto del Manzoni rappresenta un personaggio austero, severo, quasi distaccato, le cronache ci raccontano un Alessandro balbuziente (motivo per il quale non parlava in pubblico), facile ad attacchi di panico e a momenti bui, ma goloso, buongustaio e di grandi “appetiti” non solo gastronomici.

 

In una lettera scrisse che, di ritorno da un viaggio e sentendosi molto stanco, si accontentò di un fritto, un po’ di bollito, un assaggio di arrosto oltre, ovviamente, a contorni e dessert… il tutto innaffiato da buon vino; un vero scrittore gourmet. Era anche così amante del cioccolato da esserne quasi dipendente, oggi lo potremmo definire chocolate addicted.

 

Aveva anche la passione per la botanica. Si occupava, infatti, sia delle piante di via Morone sia di quelle della villa di Brusuglio, che la madre aveva ereditato dal compagno.

 

Nelle sue terre sperimentava coltivazioni innovative, che non sempre i suoi contadini capivano, Questa tenuta gli forniva anche molti prodotti alimentari a Km Zero. Lo scrittore era un ottimo camminatore e raggiungeva spesso la villa a piedi percorrendo almeno 15 Km tra andata e ritorno. Cibo sano e movimento, ieri come oggi, sono consigliati per vivere a lungo (il Manzoni visse quasi 90 anni).

 

Una pianta di questa villa ci parla del legame tra Alessandro ed Enrichetta. La giovane donna aveva infatti intrecciato i fusti di due robinie come simbolo della loro unione. Purtroppo la mostra su Manzoni botanico, prevista per dicembre al Museo di Storia Naturale di Milano, è stata rimandata.

 

La tenera Enrichetta amava un dolce contadino, la carsenza, tipica delle festività natalizie. La si può fare anche in casa, oggi come allora. Ecco la ricetta per questa torta manzoniana, magari un’idea per il prossimo Capodanno.

CARSENZA – Dolce tipico lombardo che si festeggiava il primo dell’anno. Ingredienti:
450 grammi farina bianca OO – 100 grammi zucchero da canna – 1,5 bicchiere di acqua – 80 di burro fuso – un cubetto di lievito di birra – 3 mele grandi – mezza confezione di uvette – una confezione di fichi, circa 20 – zucchero semolato q.b. – Burro a fiocchi.
PREPARAZIONE:
Sciogliere il lievito in mezzo bicchiere di acqua e il burro fuso nel forno a micro onde. Impastare farina, acqua, e burro fuso nella planeteria per 5 minuti. Unire all’impasto le mele tagliate a pezzi togliendo solo il torsolo, unire l’uvetta e i fichi tagliati a metà. Amalgamare il tutto. Mettere l’impasto in una teglia di cm. 26 foderata con carta da forno. Lasciare lievitare per 4 ore coperta. Infornare a 200 gradi per 45 minuti dopo aver spolverato lo zucchero semolato e qualche fiocco di burro. Coprire con delle carta stagnola se durante la cottura diventa troppo colorita.
Sfornare, mettere zucchero a velo e servire, tiepida o fredda.” (da Varese News – 13 novembre 2023)

 

Logorata dalle quindici gravidanze, dai salassi e dalla tisi, Enrichetta si spense, a 42 anni, proprio il giorno di Natale del 1833. Aveva scritto in una lettera che le donne sono come un baco da seta e vengono sacrificate per diventare il filo che tiene unita la famiglia.

 

Ormai il Manzoni era uno scrittore di grande fama e onori. Furono proprio le sue opere a fare innamorare di lui la seconda moglie, Teresa Borri Stampa, una ricchissima vedova con un figlio diciottenne. Dopo aver letto i Promessi Sposi, scrisse alla propria madre “Don Alessandro è fatto come il mio cuore vuole”.

 

Era completamente diversa da Enrichetta. Colta, intellettuale, frequentava i salotti, gli artisti più in voga e anche i movimenti politici e filantropici dell’epoca. Viveva appieno la Milano di allora, ricca di cultura e di eventi.

 

Giulia, la madre di Alessandro, aveva capito che il figlio aveva bisogno, oltre che di lei, di una donna accanto. Infatti, nei quattro anni tra un matrimonio e l’altro, il Manzoni aveva avuto una relazione con una ricamatrice da cui era nato un figlio. Giulia favorì quindi il matrimonio con Teresa, anche se molto diversa dalla mite Enrichetta.

 

Il ricordo della prima moglie, però, era sempre presente, quasi incombente. Al ricevimento di nozze Giulia invitò Teresa a indossare uno scialle di Enrichetta e a usare il suo profumo di lavanda (che sapeva di casa) anzichè l’inebriante gelsomino che usava di solito. Inoltre, come dolce di nozze, venne servita la semplice, casalinga carsenza. Ma Teresa non era Enrichetta, nè il personaggio di “Fosca” del film “Viaggi di nozze” di Verdone e, cosi, l’invadente Giulia, che denigrava la nuora con amici e conoscenti, si dovette trasferire al piano superiore di via Morone.

 

Con la nuova moglie fece il suo ingresso in Casa Manzoni il panettone, dolce di pasticceria e non fatto in casa, che Teresa amava gustare anche negli eleganti bar dell’epoca.

 

Molto passionale e golosa come il marito, lo mangiava tutti i giorni e non solo a Natale. Creò persino un verbo per manifestare la propria soddisfazione. Nel suo diario scrisse: “Milano 1850, bene panatonata!”. Panettone e cioccolato, che gustosa accoppiata!

 

Colpita da una grave forma neurodegenerativa, anche se quasi immobile, continuò a ricevere nel suo salotto privato. Si spense a 61 anni nella villa di Lesa, senza la presenza del marito che, visto il caldo del mese di agosto, aveva preferito tornare a Brusuglio.

 

Alessandro le sopravvisse circa 12 anni. Quante volte avrà ripensato al proprio componimento poetico “Autoritratto”, scritto in gioventù? Quali risposte si sarà dato?
” …Poco noto ad altrui, poco a me stesso,
gli uomini e gli anni mi diranno chi sono. “

A presto…

Aspettando Natale: entriamo in Casa Manzoni

A Casa Manzoni, il panettone non mancava mai. Infatti lo si mangiava tutti i giorni, così, almeno, con la seconda moglie Teresa. Ma era veramente sempre Natale in questa famiglia?

 

Siamo andati ad “incontrare” Don Lisander nella sua casa di via Morone 1, dove lo scrittore visse gran parte della sua lunga vita.

 

Alessandro aveva sposato nel 1808 la giovanissima Enrichetta Blondel e in pochi anni erano già nati due figlioletti.

 

La coppia desiderava allargare ancora di più la famiglia e serviva, dunque, una casa adeguata. Lo scrittore aveva quindi acquistato nel 1813 questo palazzetto di tre piani nel centro di Milano, zona VIP, dove abitava l’aristocrazia cittadina.

 

Questa nuova sistemazione soddisfaceva appieno l’onnipresente madre di Alessandro, Giulia Beccaria, che, pur avendolo abbandonato da piccolo per un nuovo amore, Carlo Imbonati, alla morte di questi, lo “ritrovò” vivendo per sempre con lui e la sua famiglia.

 

Scrisse Giulia; “sono contentissima della nuova casa… Ha un aspetto felice sì nell’inverno che nell’estate”. Questa casa aveva anche un bel giardino che ora fa parte delle Gallerie d’Italia.

 

Alla morte del Manzoni, questa casa ebbe qualche cambiamento di proprietà, ma da tempo appartiene al Comune di Milano e ospita il Centro Studi Manzoniani e, dal 1965, il Museo di Casa Manzoni, realizzato dallo Studio de Lucchi.

 

In effetti, andando a visitare questo palazzetto, non entriamo in una casa, ma in un museo, con l’esposizione di oggetti comuni appartenuti allo scrittore, cimeli, quadri, stampe, ed edizioni delle sue opere.

 

Delle dieci sale espositive, solo due conservano un aspetto più domestico: sono la camera da letto al primo piano e lo studio al piano terra. Questo locale, circondato da librerie, è scaldato da un piccolo salotto, da una bella stufa e da un soffitto decorato a cassettoni, appartenuto al precedente proprietario.

 

In una bacheca sono in bella mostra oggetti da scrivania e l’amata tabacchiera.

 

Cogliamo in questo locale due elementi un po’ insoliti che ci aprono un piccolo spiraglio sull’uomo Manzoni. Davanti alla finestra che dà sul giardino, c’è un piccolo tavolino dove Alessandro scrisse parte dei Promessi Sposi; da questo angolino smart working lo scrittore poteva guardare le amate piante o, forse, entrava più luce.

 

Inoltre, nello studio si trova una porta un po’ segreta da dove Alessandro poteva raggiungere, con una scala, direttamente la camera da letto dove trovare un po’ di intimità con la moglie, durante la giornata.

 

Accanto allo studio c’è la stanza dei “giavann” (“stupidotti”, in dialetto milanese) dove Don Lisander incontrava gli amici per chiacchierare; qui visse per qualche tempo anche l’amico fraterno Tommaso Grossi, che fu colui che gli presentò la seconda moglie, Teresa, con la quale, si dice, avesse avuto anche una storia.

 

Al primo piano si trova l’appartamento familiare, nel quale si conserva la camera da letto singola nella quale Manzoni, ormai anziano e vedovo, si spense nel 1873. Questa, purtroppo visibile solo dalla porta, appare piuttosto austera, quasi monacale.

 

Negli altri locali si trovano quadri, cimeli, pubblicazioni delle sue opere (anche in lingue straniere).

 

Peccato che, anche nella sala dove si riuniva la famiglia, non ci sia nulla che richiami un po’ di intimità. Sappiamo da alcuni scritti che spesso Enrichetta qui giocava a mosca cieca con la nidiata di figlioletti, mentre Alessandro e la madre osservavano. Presenti o assenti?

 

Enrichetta scrisse al canonico Tosi: “noi tre siamo perfettamente felici”: lei, la “sposa bambina” che passò la vita tra gravidanze e figlioletti da accudire e morì a 42 anni, proprio il giorno di Natale; Alessandro “con i suoi mali di nervi, le sue angosce nervose più forti che mai” e infine “Madame”, la suocera, piena di acciacchi e definita sempre “la nostra cara madre”.

 

Sappiamo che durante le feste natalizie, e in particolare a Capodanno, a casa Manzoni si mangiava una semplice torta contadina, la “carsenza” di cui Enrichetta, di padre svizzero, era ghiotta. E il panettone? Arriverà con la seconda moglie, la milanese Teresa…

 

A presto…

Piccolo itinerario del tempo: terza parte (la meridiana del Duomo)

Ancora una volta il Duomo è al centro di una piccola storia di Milano.

 

Avete mai notato quella sottile linea di ottone, incassata nel pavimento, che, appena varcata la soglia, attraversa da destra a sinistra le cinque navate della cattedrale?

 

Se la guardiamo con attenzione, vediamo che sale sulla parete fina circa tre metri di altezza e termina con una formella dove è raffigurato un Capricorno, segno zodiacale in cui cade il solstizio d’inverno.

 

Non solo: accanto alla linea di ottone, che va dalla parete sud (quella verso Palazzo Reale) a quella nord (verso il Motta), appaiono gli altri segni zodiacali. Sacro e profano? Assolutamente no, non sono da considerare segni astrologici, ma astronomici, fatti posare alla fine del Settecento da due religiosi dell’Osservatorio di Brera.

 

Stiamo parlando della meridiana del Duomo, protagonista di questa puntata del nostro itinerario sugli orologi di Milano. Si tratta di un orologio solare che viene da un lontanissimo passato. La utilizzavano già i Caldei, gli Egizi, i Greci,… e ne troviamo esempi anche in tempi più vicini a noi. Ecco, ad esempio, la Casa della Meridiana, di via Marchiondi 3, realizzata a Porta Romana nel 1926 dall’architetto Giuseppe De Finetti, esponente del movimento Novecento.

 

Questo edificio fa parte del patrimonio architettonico della nostra città, è composto da cinque “ville”, diseguali e sovrapposte.

 

Sulla facciata una cornice racchiude una meridiana, realizzata dall’architetto e pittore Luigi Gigiotti Zanini.

 

Ma come funziona, a grandi linee, una meridiana? Un’asta verticale, lo gnomone, con la luce del sole proietta la propria ombra su una sorta di quadrante apposito. A mezzogiorno, quando il sole è a picco, l’ombra è la più corta.

 

Poteva, però, non esserci un “rito ambrosiano” anche per la meridiana del Duomo? Infatti essa è, per così dire, una meridiana al contrario. Non si basa sulle ombre, ma sulla luce del sole che, entrando a mezzogiorno da un foro posto sulla volta della prima campata sud a circa 24 metri di altezza, illumina la striscia di ottone sul pavimento. Un particolare: questa striscia è stata collocata vicino all’entrata del Duomo per non disturbare i riti religiosi. Chapeau!

 

La meridiana del Duomo venne realizzata nel 1786 da due gesuiti, padre Angelo De Cesaris e padre Guido Francesco Reggio, astronomi dell’Osservatorio di Brera, per ordine del Regio Imperiale Governo Austriaco.

 

Firmatario del decreto fu Cesare Beccaria, insigne giurista nonchè nonno materno di Alessandro Manzoni. Perchè questo decreto imperiale? Dal 1° dicembre 1786 venne introdotto, anche in Lombardia, dal governo austriaco il nuovo computo delle ore. Si passò, infatti, dalle “ore italiche”, basate sul tramonto del sole che corrispondeva sempre alle ore 24, al sistema in uso in Europa, secondo il quale si divideva la giornata in due periodi di 12 ore ciascuno (AM e PM) partendo dal mezzogiorno astronomico delle diverse località. Per rendere più facile questa misurazione del tempo, furono poi introdotti i fusi orari.

 

Come sempre alla nuova misurazione del tempo seguirono diverse proteste e lamentele. Giacomo Casanova riporta quelle di una sua cugina di Parma. “…il sole sembra ammattito! Tramonta ogni giorno ad un’ora diversa. Adesso si pranza alle dodici…” Prima, invece, “…al tramonto [cioè sempre alle 24] si recitava l’Angelus e si accendevano i lumi.”.

 

Grazie alla meridiana del Duomo, Milano si adeguò alla nuova misurazione del tempo, unendo, come sempre, novità e tradizione. Dal Duomo, infatti, un incaricato osservava l’arrivo del mezzogiorno sulla meridiana e lo comunicava al Palazzo dei Giureconsulti, da cui partiva un segnale per il Castello. Qui un artigliere sparava un colpo di cannone a salve, che segnalava ai milanesi l’ora del mezzogiorno.

 

A presto…

Una statua per Cristina Belgioioso, una protagonista del Risorgimento

È la prima milanese a cui è stato dedicato un monumento nella nostra città. Inaugurato qualche settimana fa e realizzato in bronzo da Giuseppe Bergomi, la statua di Cristina Belgioioso si trova nella piazzetta omonima vicino al palazzo del marito e alla casa del Manzoni.

In quest’opera Cristina è raffigurata nell’atto di alzarsi, interrompendo la lettura o quanto stava scrivendo.

L’idea del movimento è accentuata dalle balze dell’abito e dal colletto slacciato dal quale emerge un viso intenso, coi capelli raccolti e occhi grandi, aperti sulla realtà che la circonda.

La storia racconta che fu donna del Risorgimento, amica e sostenitrice di molte imprese e personaggi dell’Ottocento, scrittrice e animatrice di salotti, protagonista di cento avventure e tante vite. Ma chi fu veramente Cristina?

La sua storia

Cristina Trivulzio nacque il 28 giugno 1808 nel palazzo di famiglia in piazza Sant’Alessandro, discendente dell’antica dinastia della quale faceva parte quel Gian Giacomo, Maresciallo di Francia e grande condottiero, che sconfisse Ludovico il Moro, facendo cadere Milano sotto la dominazione francese.

La bimba fu battezzata con una sfilza di nomi nella vicina chiesa di Sant’Alessandro. Purtroppo rimase presto orfana di padre ed erede di leggendarie ricchezze e opere d’arte di inestimabile valore, di cui sarebbe venuta in possesso con la maggiore età o il matrimonio.

La madre Vittoria si risposò presto ed ebbe altri quattro figli dal nuovo marito, il Marchese Alessandro Visconti d’Aragona, che fece da buon patrigno a Cristina, legata per tutta la vita ai fratellastri.

Alessandro era un nobile di simpatie carbonare tanto da essere arrestato e imprigionato. Quando fu rilasciato, due anni dopo, era sconfitto nel corpo e nello spirito e la famiglia era ormai entrata sotto il controllo del Grande Fratello austriaco.

Cristina venne educata come una fanciulla dell’alta aristocrazia milanese del tempo, con ottimi insegnanti, tra i quali anche una pittrice, Ernesta Bisi, affiliata alla Carboneria, che le restò sempre amica.

La Marchesina apparteneva dunque ad una casata illustre, aveva una ricchezza inestimabile, buona cultura e un aspetto gradevole, forse vagamente dark… Come non essere chiesta in moglie?

Una zia, che faceva parte dell’aristocrazia milanese filoaustriaca, propose di unire famiglia e patrimonio Trivulzio facendole sposare il proprio figlio Giorgio. Cristina, però, rifiutò scegliendo invece un altro cugino, il Principe Emilio Barbiano di Belgioioso d’Este, bello, brillante, intelligente, ma libertino e dedito al gioco.

Le fastose nozze si tennero nella chiesa di San Fedele. La sedicenne Cristina, col matrimonio, divenne Principessa ed ebbe la disponibilità dell’enorme ricchezza degli avi.

Non fu, però, una unione felice, come aveva profetizzato un nobile, il Conte Crivelli, nei versi di uno scherzoso canto nuziale che Cristina conservò sempre tra le sue carte: “E sarà dunque ver, Cristina bella?/un “pezzo” principesco hai tu voluto?/che poi che teco alquanto avrà goduto/lussureggiando andrà con questa e quella/…/ma come indietro non si ritorna,/render solo potrai corna su corna”.

Purtroppo il Conte aveva ragione; dopo quattro anni, infatti, i coniugi si separarono amichevolmente e la Principessa, a vent’anni, si ritrovò libera, ricchissima e… ammalata di sifilide.

Intanto l’Occhio del Grande Fratello VIP, il Barone Carlo Torresani, capo della polizia austriaca a Milano, controllava Cristina, attento non solo alle frequentazioni e ai finanziamenti a favore dei movimenti risorgimentali, ma anche alla sua “moralità”. Ci furono, per tutta la vita, calunnie, “spetteguless”, anche confisca di beni e del passaporto, che poi la Principessa riusciva in qualche modo a riavere, del tutto o in parte, grazie alle conoscenze importanti del “contesto giusto” in cui viveva.

Nei suoi tanti viaggi in Italia e in Francia, spesso ufficialmente per curarsi, Cristina visse nel groviglio risorgimentale italiano facendo spesso da bancomat quasi illimitato. Fu anche l’animatrice di un salotto parigino dove si poteva incontrare il meglio di artisti e intellettuali.

Nella primavera del 1838, a Parigi, Cristina si accorse di aspettare un bambino, la cui paternità resta un mistero. Forse il padre era un famoso storico e intellettuale col quale la Principessa restò sempre in contatto, o forse un giovane e bellissimo musicista. In ogni caso Cristina fu e rimase la madre single di Maria.

Tra discussioni, studi e libri, la Principessa si avvicinò alla dottrina sociale della Chiesa e, tornata in Italia, si accorse della miseria e del degrado in cui vivevano i suoi contadini del castello avito di Locate.

Fondò un asilo, scuole, corsi di igiene, una cucina pubblica per bisognosi. Passò così per “sovversiva”, tanto che il buon Manzoni commentò: “Con la mania di quella signora… quando i contadini saranno tutti dotti, a chi toccherà coltivare la terra?”. Don Lisander, che abitava poco lontano da palazzo Belgioioso, proibì poi a Cristina di fare visita all’anziana madre dello scrittore, amica di vecchia data della Principessa. Troppo scandalosa e “diversa” dalla moglie, la dolcissima Enrichetta, sfinita da figli e maternità.

Cristina era realmente diversa e volle vivere mille avventure. Partecipò alle Cinque Giornate, scrisse libri, fondò riviste e giornali e, durante la breve vita della Repubblica Romana, diventò anche infermiera per curare i feriti.

Dopo le sconfitte risorgimentali, delusa dagli eventi e ricercata dagli Austriaci, fuggì in Medio Oriente scrivendo pagine disincantate e ironiche sulle sue esperienze di viaggio e sugli usi dei popoli che incontrava. Visitò anche un harem, che descrisse in modo ben diverso dalle fiabesche “Mille e un notte”.

Rimase in Medio Oriente diversi anni con la figlia, la governante e pochi amici, impiantando anche una sorta di azienda agricola dove si coltivavano gelsi, grano, orti… e oppio. Già abituata all’uso di pesanti antidolorifici, tutte le sere Cristina si concedeva una bella fumata col narghilè.

Quando subì un’aggressione, pensò di tornare in patria, preoccupata anche per il futuro della figlia. Trattò col governo austriaco il rimpatrio e la restituzione di tutti i beni. Era il 1855 e la Principessa fece un ritorno teatrale con un piccolo corteo del quale facevano parte anche un cavallo arabo, due levrieri afgani e due gatti d’angora. Grande Cri’, non si abbandonano mai gli animali.

Anticonformista, ribelle, ma lucidamente consapevole della forza di potere e denaro e, soprattutto, della cupidigia umana, “comprò” dal marito e dai parenti di lui il cognome Belgioioso per Maria che, come figlia illegittima, non avrebbe potuto ereditare nè titolo, nè beni nè, soprattutto, fare un buon matrimonio.

I tempi stavano cambiando e si realizzò l’agognata Unità d’Italia sotto i Savoia, come Cristina aveva sempre desiderato. Al ballo di gala in onore del Re, dato a Milano, però, Cristina non venne neanche invitata. Era una donna stanca e invecchiata, provata da vita, malattie e droghe che si procurava anche chiedendo aiuto a Cavour per sdoganare la merce. Il Conte l’aiutò irridendo con un amico quella donna ridotta all’oppio per procurarsi “quell’ebbrezza che i sensi non possono più darle”.

Visse gli ultimi anni tra Milano e il lago di Como, ospite della figlia diventata Marchesa Trotti e dama di corte. Sempre lucida e attiva si spense il 5 luglio del 1871 in poltrona, perchè non era in grado di morire in piedi come avrebbe voluto.

Alle donne lasciò questa riflessione riportata sul monumento di piazza Belgioioso:

Quanto c’è della sua storia in queste parole? Chi fu veramente Cristina?

A presto…

San Carlo al Lazzaretto… restando a casa anche a Pasqua

Perché parlare di questa chiesa alla vigilia della Pasqua 2020? E’ stata al centro del Lazzaretto durante le epidemie di peste, faro e conforto per i molti malati e per chi ne aveva cura. E’ quindi una testimonianza fisica di sofferenze lontane, ma anche di rinascita.

“Tu vedi quella chiesa lì nel mezzo… [disse Padre Cristoforo] e, alzando la mano scarna e tremolante, indicava a sinistra nell’aria torbida la cupola della cappella, che torreggiava sopra le miserabili tende;” (I Promessi Sposi, cap. 35). Renzo si reca al Lazzaretto per cercare Lucia. Sono gli anni della peste che ci riportano purtroppo a quanto sta accadendo intorno a noi.

La chiesetta, che fa parte della storia e della letteratura di Milano, esiste ancora e si trova in una piazzetta lungo viale Tunisia, raggiungibile con i tram 5 e 33 o con la metropolitana M1 (rossa) fermata Porta Venezia.

È dedicata a San Carlo al Lazzaretto per distinguerla dalla ben più famosa San Carlo al Corso, ma è conosciuta dai milanesi DOC con l’affettuoso diminutivo di San Carlino.

Oggi è inserita in  un popoloso quartiere, ma nel 1576, quando fu costruita su progetto dell’architetto Tibaldi, si trovava esattamente al centro del grande quadrilatero del Lazzaretto.

Ecco come una guida d’eccezione, Alessandro Manzoni, ci descrive la chiesa:  “La cappella ottangolare che sorge, elevata d’alcuni scalini, nel mezzo del lazzeretto, era, nella sua costruzione primitiva, aperta da tutti i lati, senz’altro sostegno che di pilastri e di colonne, una fabbrica, per dir così, traforata: in ogni facciata un arco tra due intercolunni;

dentro girava un portico intorno a quella che si direbbe più propriamente chiesa, non composta che d’otto archi, rispondenti a quelli delle facciate, con sopra una cupola; di maniera che l’altare eretto nel centro, poteva esser veduto da ogni finestra delle stanze del recinto, e quasi da ogni punto del campo.

Ora, convertito l’edifizio a tutt’altr’uso, i vani delle facciate son murati; ma l’antica ossatura, rimasta intatta, indica chiaramente l’antico stato, e l’antica destinazione di quello.” (I Promessi Sposi, Cap. 36)

La nostra chiesetta, nei duecento anni tra la peste ricordata dal Manzoni (1630) e la stesura dei “Promessi Sposi” (1840) aveva vissuto varie vicissitudini ed era passata persino, nel periodo napoleonico, da polveriera dell’esercito accampato nel Lazzaretto, a Tempio della Libertà, su progetto del Piermarini.

Verso la fine dell’Ottocento le sorti della chiesetta e del Lazzaretto si separano. Il Lazzaretto, un grande spazio edificabile in una zona in espansione, attraversato dalla ferrovia e vicinissimo alla vecchia stazione Centrale, viene demolito e lottizzato.

La chiesa, rimasta orfana del suo Lazzaretto, fu, invece, acquistata, grazie ad una sottoscrizione popolare, nel 1884 dalla parrocchia della vicina chiesa di Santa Francesca Romana. Venne poi ristrutturata e riconsacrata col titolo di San Carlo al Lazzaretto (prima era dedicata a San Gregorio) per ricordare l’opera del Cardinale durante la peste del Cinquecento.

All’interno, un grande quadro sopra l’altare raffigura San Carlo Borromeo mentre benedice gli appestati.

Recentemente, dopo nuovi, lunghi e accurati lavori di restauro, sia interno che esterno, la piccola chiesa è stata riaperta ai visitatori e ai fedeli.

Una piccola curiosità: la chiesa di San Carlo ha dato il nome alle famose patatine nate, nel 1936, in una rosticceria che si trovava in via Lecco, proprio di fronte al nostro San Carlino.

La chiesetta di San Carlo è memoria di epidemie lontane, ma anche di rinascita umana e sociale. Purtroppo ancora oggi stiamo vivendo una pandemia che sembra non avere fine, non perdiamo, però, forza e speranza.

Concludiamo ancora con un passo dei Promessi Sposi:” … dolori e imbrogli della qualità e della forza di quelli abbiamo raccontato, non ce ne furono più per la nostra gente: fu, da quel punto in poi, una vita delle più tranquille, delle più felici, delle più invidiabili …” (I Promessi Sposi, cap. 38)

Auguriamoci che ciò avvenga anche per noi tutti e che, come nel periodo pasquale, dopo il buio venga la luce della Rinascita: una affettuosa Buona Pasqua a tutti!

A presto…

Voglia di primavera nei “Cortili aperti”

La primavera tarda ad arrivare e abbiamo sentito ancora più forte il desiderio di verde e fiori intorno a noi.

Abbiamo così “colto” l’occasione, proprio come un fiore sbocciato all’improvviso in un giorno di pioggia, di visitare “The Secret Garden”, il chiostro ottocentesco delle Gallerie d’Italia, aperto al pubblico in omaggio ad Orticola, la tradizionale manifestazione di fiori e piante.

Il “Disco in forma di rosa del deserto”, opera di Arnaldo Pomodoro, è custodito da vetrate, come in un giardino d’inverno, tra profumi, cinquettii, suoni di zampilli e fruscio di foglie in una esperienza multisensoriale quasi onirica.

Accanto a questa “idea di natura” c’è, invece, il vero, bellissimo, antico giardino della casa del Manzoni.

In questo giardino, che fa parte delle Gallerie d’Italia, alcune statue di autori contemporanei si lasciano guardare come in un museo all’aperto.

Belle panchine invitano alla sosta in quest’angolo quasi segreto, vicino a via Manzoni.

Un altro evento, “Cortili Aperti”, ha permesso di varcare i portoni di palazzi storici tra corso Magenta e via Cappuccio, solitamente chiusi al pubblico.

Era aperto, eccezionalmente, anche l’antico Palazzo Borromeo nella omonima piazza.

Un placido dromedario, simbolo di pazienza e moderazione, campeggia in una cesta sopra il portone, custode di un passato memorabile.

All’interno del palazzo si aprono due cortili restaurati dopo i bombardamenti.

Nel secondo cortile un intero lato è affrescato con il ripetuto motto, “Humilitas”, dei padroni di casa, tra i quali gli Arcivescovi Carlo e Federico Borromeo.

Nei nostri quattropassi abbiamo anche scoperto, tra via Sant’Agnese e via Nirone, un piccolo giardino sempre aperto al pubblico, bellissimo anche nelle giornate piovose.

E’ intitolato ad Aristide Calderini, storico e archeologo dell’Università Cattolica.  Al centro di questo giardino una stele di Arnaldo Pomodoro è dedicata alle vittime della strada, in ricordo di una giovane vita spezzata che qui aveva trascorso ore serene coi propri amici.

Questo giardino è nato dai bombardamenti che hanno distrutto il palazzo rinascimentale dove, forse, era nato Bernardino Corio, storico milanese ai tempi di Ludovico il Moro.

Alla costruzione del palazzo, di cui rimangono alcuni resti, aveva partecipato anche il Bramante ed ora possiamo sedere tra antiche mura e prati verdi.

 

Ancora una volta basta poco per  trovare angoli nascosti e  poetici  nella nostra Milano che corre.

A presto…

Passipermilano? Secondo itinerario nel cuore della nostra città per chi viene la prima volta

Siamo in piazza della Scala, piuttosto nuova (è stata completata agli inizi del Novecento da Luca Beltrami) e che potremmo quasi definire “laica”. Vi troviamo, infatti, palazzi della politica, della cultura e dell’economia.

piazza della Scala

Palazzo Marino, sede del Comune

Teatro alla Scala

Banca Commerciale – Gallerie d’Italia

Non solo: per costruire alcuni di questi edifici sono state demolite, in tempi diversi, ben due chiese, Santa Maria alla Scala e San Giovanni Decollato alle Case Rotte. Una piccola curiosità: la facciata di quest’ultima è stata “spostata” in via Ariosto, come entrata laterale della chiesa di Santa Maria Segreta.

 

Iniziamo da piazza della Scala la seconda parte della nostra passeggiata nella quale ci faremo guidare da alcune statue, silenziose presenze dei nostri passipermilano. Di fianco al teatro incontriamo la statua dedicata a un sorridente Giulio Ricordi, il grande editore musicale.

Il monumento, creato nel 1922, è stato da poco ricollocato proprio dove si trovava la storica sede della Ricordi, oggi diventata Museo della Scala.

Quasi di fronte, al centro della piazza, giganteggia la ben più imponente statua di Leonardo da Vinci, con quattro allievi, tra verde, panchine e una “vedovella”.

La prossima statua che incontriamo in questa passeggiata è quella di un incavolatissimo Alessandro Manzoni, che trovò la morte battendo la testa contro i gradini della bella chiesa di San Fedele.

Voluta da San Carlo Borromeo, fu costruita sopra una precedente chiesetta dedicata a Santa Maria in Solariolo e a San Fedele. Quando la vicina chiesa di Santa Maria alla Scala venne demolita, il nome e alcune opere più importanti furono trasferite  nella chiesa che oggi si chiama, per accontentare un po’ tutti, “Santa Maria alla Scala in San Fedele”. Come sempre a Milano è bello ritrovare le tracce del passato nel nuovo.

autore anonimo

Simone Peterzano

Questa chiesa oggi propone un itinerario tra arte e fede. Al suo interno non solo opere classiche, ma anche di Lucio Fontana e di altri autori contemporanei che creano riflessioni e aprono un dialogo con la spiritualità del nostro tempo.

Lucio Fontana

Nicola de Maria

Entriamo per una breve visita nel Museo di San Fedele (ingresso 2 Euro). Dopo l’imponente sagrestia soffermiamoci su una trecentesca Madonna del Latte; sopra il suo piccolo altare un libro di cristallo e specchio che riflette e fa riflettere.

opera di Christian Megert

Siamo nella Cappella delle Ballerine, opera di Mimmo Paladino, decorata con tante scarpine d’argento; qui le artiste della Scala venivano per una preghiera prima dello spettacolo.

La cappella è collegata all’altare da una serie di specchi. che sorprende per i giochi di immagine tra sacro ed umano.

Usciamo da San Fedele e raggiungiamo ora la Rinascente percorrendo via Santa Radegonda, dove si potrebbe incontrare non una statua ma il fantasma della figlia di Bernabò Visconti. Alzando gli occhi possiamo vedere le statue, un po’ insolite e sconosciute,  sulla facciata del cinema Odeon.

Sono un omaggio al mondo dello spettacolo, dal cinema al teatro, dalla musica alla danza.

cinema

teatro

danza

musica

Siamo ora in corso Vittorio Emanuele e possiamo zigzagare tra le vetrine dell’isola pedonale e, dando un’occhiata a piazza del Liberty, dove sorgerà il nuovo complesso della Apple, andiamo a trovare il “Scior Carera”.

L’ “Omm de Preja”, chiamato anche “Scior Carera” per una storpiatura dell’epigrafe, è una statua romana del III secolo d.C., con testa cambiata attorno al Mille, che abita al numero 13 di corso Vittorio Emanuele, vicino alla coloratissima Zara.

I milanesi erano soliti appendere a questo “Pasquino” ambrosiano anonimi biglietti satirici contro il governo austriaco. Sembra che proprio da via San Pietro all’Orto, dove abitava in quel periodo el Scior Carera, partì l’idea dello sciopero dei sigari che sfociò nelle Cinque Giornate del 1848.

Questa zona è sempre stata al centro della vita milanese: infatti ci troviamo dove, ai tempi della Mediolanum imperiale si estendevano, per circa 15.000 metri quadri, le imponenti e lussuose Terme Erculee, una sorta di SPA, dotate di palestra, sauna, bagni caldi e freddi, luogo di svago, benessere e aggregazione per i milanesi dell’epoca.

Per molto tempo non si seppe con precisione nemmeno dove le Terme fossero situate. Poi, mentre Milano cresceva abbattendo case fatiscenti e scavando per costruire infrastrutture e metropolitane, ecco il passato riaffiorare appena sotto il nuovo.

Come per magia (e chissà quanto è andato perduto) sono riapparsi via via, tra corso Europa, piazza San Babila e corso Vittorio Emanuele, tratti di mura e reperti delle Terme, dal busto di Ercole a pavimenti a mosaico, ora conservati al Museo Archeologico.

Anche gli scavi in corso della linea blu della metropolitana stanno facendo ritrovare altri ricordi del passato, quasi questi volessero essere presenti al nuovo sviluppo.

Le Terme furono distrutte da un incendio (Attila?) e la terra venne adibita via via a pascolo pubblico, come per fare ricominciare la vita. In mezzo a questi pascoli sorse, attorno all’anno Mille, la piccola chiesa di San Vito al Pasquirolo, rifatta in epoca barocca e oggi di rito russo-ortodosso.

Poco lontano dalla chiesetta, in una piccola e triste Walk of Fame (Largo Corsia dei Servi 21), troviamo non statue, ma impronte delle mani di celebri personaggi dello spettacolo di ieri.

La statua di un sornione Carlo Porta, nel vicino Verziere, ci invita a entrare in una zona dall’atmosfera completamente diversa. Ci troviamo nelle viuzze intorno all’Università Statale, a San Bernardino alle Ossa e a Santo Stefano, in un itinerario ricco di storia, fascino e mistero, ma anche di piccoli locali dove fermarci per uno spuntino.

Ci ritroviamo tra qualche giorno davanti al Teatro Lirico, ora in rifacimento, per continuare il nostro giro nel cuore di Milano.

“Com’è bella la città” – opera di Antonio Marras

A presto…